Un fotogramma di "Uccelli"... |
di CARLO RUTA
(storico e saggista)
Ricordate «Gli uccelli» di Hitchcock? Quel film uscito nel
1963, tratto dall’omonimo racconto di Daphne du Maurier del 1953, fu un vero colpo
di genio. Non fu tanto compreso dalla critica del tempo, mentre le sale si
riempivano, per i suoi scenari orridi ma attraenti, la spettacolarità delle
immagini e forse anche per la trama inusuale, lasciata quasi in sospeso, come
se la fine, solo implicita, la si dovesse ricercare altrove. Lo stesso
Hitchcock, come rimarcano le locandine del tempo, lo considerava il film forse
più impressionante tra quelli che aveva diretto, che pure includevano quel caso
fenomenale e inquietante che era divenuto Psycho, uscito tre anni
prima. Le letture sono state tante, ma il senso ultimo dell’opera credo che si
possa ravvisare nelle parole sentenziose dell’alcolizzato del villaggio, che
tanto più oggi appaiono profetiche.
Quell’uomo «finito», ultimo nella scala
sociale degli States, annunciava a suo modo, citando la Bibbia,
quel che adesso, 58 anni dopo, è a tutti drammaticamente chiaro: la natura,
piegata dalle bizzarrie di questa modernità, tecnologica e violenta, è pronta a
passare al contrattacco.
La storia umana è stata attraversata da epidemie letali, come la peste, la
lebbra, il vaiolo e il colera, per dire delle maggiori e delle più ricorrenti,
legate essenzialmente alla scarsità endemica di risorse, alle cattive
condizioni di vita dei popoli, alla promiscuità, alle carestie, alle guerre, ai
grandi disastri naturali. Ma la tarda modernità presenta un quadro epidemico
diverso e più ampio, con infezioni che rompono in qualche modo il cliché storico.
Sono i casi, ad esempio, dell’aviaria e della suina che, manifestatesi con
virulenza solo negli ultimi decenni, hanno indotto scienziati e organismi
internazionali a denunciare le condizioni di vita degli animali negli
allevamenti intensivi per l’industria alimentare. Ma è il covid 19 a fornire il
riscontro decisivo di questa rottura, infettando paesi e sistemi come mai era
avvenuto da quasi un secolo, in maniera emblematica e seguendo tragitti che
lasciano intravedere perfino un senso, una logica.
Gli epidemiologi hanno documentato che il contagio ha preso le mosse
soprattutto dai famigerati wet market, ambienti asiatici in cui cani, gatti,
galline, capre ed esemplari di altre specie, ammassati in gabbie strette e
malsane, vengono macellati a vista, per essere venduti o serviti a tavola. È un
dettaglio della Cina di oggi, che con il suo il suo gigantismo industriale non
evoca più la Via della seta, né gli itinerari delle spezie, né il Catai di
Marco Polo. È, più in particolare, la Cina dell’Hubei, la popolosa provincia
che fa capo a Wuhan, megalopoli di circa 12 milioni di abitanti, interconnessa con
le aree più avanzate della Terra. Muovendo da tale «finestra» spalancata sul
mondo, maggiormente in direzione ovest, il virus finisce con il seguire allora
un canovaccio selettivo. I maggiori focolai si attestano infatti
nelle aree più industrializzate dei paesi: la Lombardia in Italia, la Catalogna
in Spagna, la regione parigina in Francia, la Renania in Germania, lo Stato di
New York negli USA. A dispetto delle previsioni di non pochi osservatori,
l’infezione fa fatica ad attecchire invece nell’Africa più profonda, che ha
conosciuto pochi anni fa l’Ebola, il più «tradizionale» dei nuovi morbi, mentre
progredisce leggermente in Sudafrica, lo Stato più facoltoso ed estroverso del
continente, e in alcune aree relativamente connesse con l’Europa mediterranea,
come l’Algeria e l’Egitto.
Continua a cedere perciò, in un quadro di omologazioni che non conoscono
limiti, l’immagine di un Occidente e un Oriente distanti e polarizzati, ossia
di due concezioni irriducibili della modernità e della tradizione. L’Asia in
questa drammatica vicenda finisce con il rappresentare in sostanza
l’interconnessione più spavalda del mondo contemporaneo, cioè il tutt’uno del
globale. Si rovescia inoltre lo schema corrente secondo cui il contagio virale,
quasi per una legge di natura, che in realtà non esiste, dovrebbe muovere dal
mondo «povero» al mondo «ricco», in un ordine concettuale in cui contano più le
risorse tecnologico-industriali di quelle morali e, soprattutto, solidali, che
nel mondo degli «ultimi» costituiscono per forza di cose il pilastro
fondamentale della vita sociale. Pensiamoci: solo dai Tuareg e da popoli della
stessa tempra, vissuti per secoli tra le stesse difficoltà, poteva nascere una
massima come quella, davvero spettacolare, che afferma: «il tuo nemico è
l’amico che non conosci». E si sta parlando di una terra, l’Africa, che ha
vissuto, vive e vivrà ancora, chissà per quando, in un’ecatombe di guerre,
carestie, epidemie letali dal timbro antico, siccità e ogni genere di calamità
civile.
La realtà, sovvertendo non pochi luoghi comuni, inscena insomma paradossi,
a fronte della catastrofe che stanno vivendo i paesi ad economia avanzata, che
alla fine, come ormai appare evidente, conteranno centinaia di migliaia di
morti, se non addirittura milioni, e dovranno fare i conti con un dopo non meno
difficoltoso. Il fatto che il virus non stia scatenandosi nei luoghi-simbolo
della povertà ma, di preferenza, nel mondo bene ordinato dei sistemi egemoni,
come i corvi nella cittadina di Bodega Bay nell’area metropolitana di San
Francisco di cui narrava Hitchcock, ci permette di capire qual è il messaggio
e, più ancora, chi è il destinatario.
Il mondo ricco e potente delle metropoli industriali e finanziarie è
chiamato oggi a risposte cruciali, che non appaiono tuttavia neppure sottintese
in questi giorni drammatici, in cui la partita, in Europa ad esempio, si gioca
tra l’interesse egemonico-politico e il ricatto finanziario. L’impressione è
quella di mondi che, pur dominatori del PIL mondiale, appaiono sempre meno
capaci di leggere la storia e il presente, mentre si parla, sempre più a
sproposito al cospetto dei tanti morti, di «occasione storica». Si sente dire
che niente sarà più come prima, ma ci si rapporta alla realtà con gli appetiti
di sempre, mentre irrompono in scena, appunto, i veri «padroni del vapore». Non
si è più lucidi in realtà di quel Luigi XVI che alla notizia della caduta della
Bastiglia, nel 1789, domandò al duca di Liancourt se fosse in atto una
«rivolta», per sentirsi rispondere che si trattava di una «rivoluzione».
Da decenni viene documentato che si è oltre il livello di guardia.
E c’è chi lo ha spiegato in maniera esemplare, con una messe di argomenti, come
il pensatore tedesco-statunitense Hans Jonas, quando ha sottolineato le
responsabilità dei sistemi contemporanei rispetto alla natura, alle generazioni
ancora non nate e a tutti i viventi. Si pensino bene allora le mosse da
compiere, perché lo scaccomatto, corroborato dalle stoltezze di chi insiste a credersi
invulnerabile, rischia di essere davvero dietro l’angolo.
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