Carlo Verdelli |
Fra tutte le
sciocchezze che ho letto da parte dei non estimatori di Carlo Verdelli, con il
quale, purtroppo, non ho avuto il piacere di lavorare, la più pretestuosa mi
sembra quella di chi gli contesta la frase finale del suo addio ai lettori di
Repubblica: "Partigiani si nasce e non si smette di esserlo". Una
frase che secondo alcuni, cito il tuttologo Giampiero Mughini, prenderebbe
quasi a pretesto le commemorazioni del 25 aprile, "dalle quali la retorica
- dice Mughini - colerà a fiotti, al punto da oscurare le roventi verità
storiche di quella data simbolo", per manifestare, in realtà, la propria
faziosità. Altri critici, più o meno sulla stessa linea di Mughini contestano a
Verdelli i diritto di sentirsi partigiano dentro.
Riassumendo
brevemente: da mesi Verdelli è obiettivo di minacce ignobili che non
risparmiano neanche i suoi affetti più cari, al punto che le autorità di
polizia hanno deciso di assegnargli una scorta. Nelle parole degli odiatori,
queste minacce avrebbero dovuto concretarsi proprio in coincidenza del 25
Aprile. Giovedì 23, Verdelli viene licenziato debbo ritenere senza preavviso,
dalla nuova proprietà di Repubblica rappresentata dalla holding finanziaria
olandese Exor controllata dalla famiglia Agnelli e al cui comando siede uno dei
nipoti dell'Avvocato, John Elkann. La Exor nei giorni scorsi ha perfezionato
l'acquisto di Gedi, il gruppo facente capo alla Cir, la finanziaria della
famiglia De Benedetti, che nel 1996 aveva rilevato il piccolo ma sostanzioso
impero editoriale creato da Scalfari-Caracciolo, di cui fanno parte Repubblica,
l'Espresso, i giornali locali, il sito HuffiPost.
E' beninteso
che, licenziando Verdelli per sostituirlo con Maurizio Molinari, direttore
della Stampa, il giornale della famiglia Agnelli-Elkann, o Exor che dir si
voglia, non ha fatto altro che esercitare un suo diritto: quello di avere un
proprio uomo di fiducia al comando dell'ammiraglia del gruppo editoriale. Ma
per dirla con il sommo poeta, " 'l modo ancor m'offende". Una
maggior sensibilità sul piano umano nei confronti di Verdelli non avrebbe
consigliato di evitare che alla tensione per le minacce subite, si aggiungesse
anche il verdetto inappellabile del licenziamento (la cui urgenza e segretezza
mi ricorda il licenziamento di Calabresi, un anno e quattro mesi prima per mano
di Gedi-De Benedetti, seppur si parla di De Benedetti figli)? Non potevano i
nuovi vertici editoriali aspettare uno o due giorni ed evitare a Verdelli
l'amarezza della diabolica coincidenza, oltre al chiacchiericcio che ne è
seguito? Giustamente, altri colleghi si sono chiesti: dove è finito in questo
caso il tanto decantato "stile Fiat" che in passato ha molto reso sul
piano dell'immagine dell'azienda automobilistica? Ma su questo mi permetto di
dissentire. Non so quanto lo stile Fiat sia stato una vera innovazione, o un
artificio propagandistico, in ogni caso, quanto ai rapporti aziendali, lo stile
Gedi, o lo stile De Benedetti, col tempo non si è per niente dimostrato meno
discutibile.
Avendo
vissuto, negli oltre 40 anni che sono stato dipendente di Repubblica, quasi un
decennio di profonda crisi dell'editoria, costellata di tagli e, nel caso della
mia generazione, di prepensionamenti, ho potuto togliermi ogni illusione sulle
presunte doti di condivisione ed empatia degli editori nei confronti dei
giornalisti dipendenti. Sicuramente, noi ex giovani del '76, cresciuti assieme
a Repubblica, abbiamo vissuto uno stato d'eccezione che è durato per i primi
vent'anni del giornale, anni in cui, abbiamo creduto veramente che fossimo una famiglia
(Scalfari non era forse soprannominato Barbapapà?). Ma dopo la vendita del
giornale a De Benedetti, appunto, questo non è stato più vero. A pensarci bene,
con l'accorpamento di Repubblica al gruppo Exor, cioè alla famiglia Agnelli e
dunque alla Fiat, o Fca, come adesso si chiama, si chiude un'epoca, finisce la
grande anomalia rappresentata da la Repubblica, l'unico giornale che per una
larga parte della sua esistenza non è appartenuta né ad un gruppo industriale,
né ad un gruppo di pressione, come di solito accade nel panorama italiano. E al
posto della vecchia Repubblica nasce una concentrazione editoriale
che qualche anno fa avrebbe fatto gridare allo scandalo (si pensi alle
battaglie della sinistra contro l'editoria berlusconiana) ma che oggi non
sembra un problema.
Ora,
qualcuno mi vuol spiegare perché nel momento in cui Verdelli viene fatto
oggetto di una grave e prolungata intimidazione, seppure verbale, di stampo
fascista, non ha il diritto di contrapporre agli aggressori il suo sentirsi
antifascista e partigiano. Forse, secondo Mughini, avrebbe dovuto piuttosto
esercitarsi nei distinguo e negli approfondimenti delle molte verità della
Resistenza, come un vecchio testimone o come uno storico di mestiere. Invece,
proprio perché nato nel 1957 e non avendo quindi vissuto né la guerra, né la
resistenza, Verdelli ha voluto riconoscersi e persino immedesimarsi nei valori
di libertà che non appartengono soltanto a coloro i quali hanno combattuto in
quegli anni ma a tutti gli italiani. E non è forse un suo diritto, nel momento
in cui conclude l' esperienza a Repubblica, richiamarsi a un costume di
pensiero e a dei valori, riassunti nella figura del partigiano, ai quali ha
improntato tutto il suo operato promettendo di restarne fedele anche in futuro?
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26/4/2020
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