di GAD LERNER
Il sindacalista: "Gli ospiti
morivano e dicevano che erano solo bronchiti". Sospeso geriatra della Statale
che voleva far usare le mascherine. "Quando sono tornato c’era il
terrore"
La direzione del Pio Albergo Trivulzio, oltre milletrecento anziani
ricoverati, il polo geriatrico più importante d’Italia, per tutto il mese di
marzo ha occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, intanto che il
morbo contagiava numerosi pazienti e operatori sanitari. Il professor Luigi
Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo
un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle
mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del
suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e
paramedici di indossarle.
Le ripetute diffide sindacali che parlano apertamente di "gestione
sconsiderata dell’emergenza" hanno indotto la Procura di Milano ad aprire
un’inchiesta "Modello 44" a carico di ignoti. Ma il delegato Cgil
della Rsu, Pietro La Grassa, non esita a indicare il nome e il cognome del
direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, prescelto dalla Regione
Lombardia, in carica dal primo gennaio 2019. "Il filosofo", lo
chiama, perché in effetti quello è l’unico titolo universitario che Calicchio
indica nel curriculum. Di lui è noto semmai il legame con l’assessore regionale
alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, cerchia ristretta di Salvini, al cui
fianco Bolognini si trovava anche l’estate scorsa al Papeete di Milano
Marittima.
«Gli anziani morivano e a noi, nonostante l’evidenza dei sintomi, dicevano
che si trattava solo di bronchiti e polmoniti stagionali», denuncia La Grassa.
«Il risultato è che ora al Trivulzio abbiamo sette reparti isolati
completamente e due vuoti perché non accettiamo più nuovi pazienti. Nella
struttura di Merate novanta sono sotto osservazione. Al Principessa Jolanda di
via Sassi due reparti sono in isolamento». Non basta. «Quando
l’epidemia non si poteva più nascondere, ci è arrivato l’ordine di non
trasferire più i pazienti nel pronto soccorso dove di solito ricevono le cure
necessarie», prosegue La Grassa, «il che di fatto significa: lasciateli morire
nei loro letti. Niente tamponi, ci mandano allo sbaraglio».
Fino ad oggi l’immagine del glorioso Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per
vecchi inaugurato nel 1771 da un nobile amico dei grandi illuministi lombardi
Pietro Verri e Cesare Beccaria, era stata infangata solo dalle banconote
gettate nel cesso dal faccendiere Mario Chiesa: l’inizio di Tangentopoli, 17
febbraio 1992. Ma ora è successo di peggio. Per salvaguardare l’apparenza di
struttura immune dal coronavirus, è stata sacrificata l’incolumità di
milletrecento persone.
A marzo sono stati settanta i morti solo nel grande edificio di via
Trivulzio. Decisamente sopra la media. Senza contare le altre due sedi. Nei
bollettini ufficiali si sosteneva che solo in nove decessi fosse riscontrabile
il Covid-19 come concausa. Una cifra palesemente inferiore al vero. Intanto un
fisioterapista è finito intubato in rianimazione, un medico risulta positivo
con polmonite e altri due operatori sono infettati. Ma, in assenza di tamponi,
è impossibile stabilire quanti siano davvero i portatori di coronavirus.
Raggiungo il professor Luigi Bergamaschini, che lavora da cinque anni
al Trivulzio grazie a un protocollo di collaborazione con l’Università Statale,
e ne ottengo piena conferma dell’accaduto. Bergamaschini è rientrato in
servizio solo il 25 marzo, dopo che la Statale ha minacciato di tutelarlo con
un’azione legale.
Questa è la sua testimonianza: «A fine febbraio, quando si ha notizia
dell’arrivo dell’epidemia, ci poniamo il problema di utilizzare le mascherine
chirurgiche. Ci rispondono che non ce ne sono. Chi riesce se le procura, tanto
più che il 28 febbraio il mio reparto viene blindato. E io ovviamente,
ignorando i rimproveri — "mica sei tu il direttore sanitario" — ne autorizzo
l’impiego».
Si arriva così alla mattina del 3 marzo, quando ormai è scattata
l’emergenza in tutta Italia. Prosegue il racconto di Bergamaschini: «Vengo
convocato e mi comunicano che il direttore generale Calicchio è montato su
tutte le furie perché faccio indossare le mascherine. Replico: ma io mi limito
a non impedire di adoperarle... A questo punto la dottoressa Rossella Velleca
mi notifica che da domani dovrò restare a casa, anche a tutela della mia salute
visto che ho 70 anni. Ma è una scusa che non regge, vista la mail
inequivocabile che mi arriva: "Stante la Sua gestione, Lei è esonerato
dall’attività generale" ».
Nei venti giorni di assenza forzata, il professor Bergamaschini apprende
dei primi contagi importanti avvenuti nella struttura di Merate. Anche lì
si è continuato a lavorare senza mascherine. Al Pat, trasferiscono altrove
tutti i pazienti del suo reparto, il Pronto intervento geriatrico. Nel
frattempo vengono ricoverati dall’esterno altri 12 pazienti non testati, per
cui non è da escludersi che siano stati anch’essi veicoli del contagio.
«Quando il 25 marzo sono rientrato in servizio — continua Bergamaschini —
ormai al Pio Albergo Trivulzio si respirava un clima di terrore. Già si
conoscevano i metodi autoritari del direttore Calicchio, giunto a sospendere un
vecchio primario ormai prossimo alla pensione. Ma non riesco davvero a
capacitarmi di che cosa lo abbia spinto a tenere sotto silenzio la grave
situazione delle nostre strutture».
Non sarà facile ristabilire un clima di serenità all’interno del più grande
ricovero per anziani d’Italia. Cosa si voleva ottenere, tacendone la situazione
e, soprattutto, negando al personale le indispensabili
protezioni sanitarie? Dal 2003 il Pio Albergo Trivulzio si era fuso
con le altre due gloriose istituzioni cardine della filantropia ambrosiana: i
Martinitt e le Stelline. Proteso al risanamento dei bilanci, aveva messo sul
mercato diverse proprietà ereditate e entrate a far parte del suo cospicuo patrimonio
immobiliare. Al sindaco di Milano spetta la nomina del presidente, escluso di
fatto dalla gestione operativa che è di spettanza della Regione Lombardia. Pare
però che i rapporti di Calicchio con l’assessore regionale alla Sanità, Giulio
Gallera, fossero burrascosi. Lui preferiva farsi vedere con esponenti leghisti
come l’assessore Bolognini e il presidente Fontana.
«Sotto elezioni venivano ad accarezzare i nostri ospiti, "nonnini,
nonnini…" — ricorda il sindacalista La Grassa — ma al momento del bisogno
hanno fatto finta che non esistessimo».
La Repubblica, 5 aprile 2020
Nessun commento:
Posta un commento