di CARLO RUTA*
Il Paese, da solo, difficilmente potrà farcela ad arrestare il contagio
virale. Si mobilitino allora l’OMS, l’Unione Europea e le Nazioni Unite per far
giungere nei territori italiani, da ovunque, squadre di medici e paramedici
specializzati, macchinari per la ventilazione respiratoria, mascherine e tutto
quel che scarseggia o manca oggi in maniera drammatica.
Era impensabile, appena qualche settimana fa, che si potesse arrivare alla
situazione che si sta vivendo con trepidazione, giorno dopo giorno. E a questo
punto appare estremamente difficile che allo stato delle cose l’Italia, pur
facendo il possibile, ce la possa fare a debellare il contagio: per i deficit e
i danni pregressi della sanità pubblica e per abitudini consolidate in alcune
aree sociali del paese che non appaiono fino ad oggi disponibili a sacrifici
importanti e, di conseguenza, non si stanno dimostrando all’altezza della
calamità che ha investito il Paese.
* (storico e saggista)
La fase attuale è, per usare una metafora
semplice, quella di un incendio, che giorno dopo giorno si estende
paurosamente, in maniera quasi esponenziale, e che bisogna spegnere con estrema
urgenza se si vuole evitare che lasci rovine e devastazioni a larghissimo
raggio. L’Italia, lo si sta comprendendo bene in questi giorni, non è la Cina,
per tante ragioni, sociali, ambientali, culturali, politiche. I numeri dei
contagiati e delle vittime nel nostro Paese nel giro di una decina di giorni
appaiono, a ben vedere, del tutto fuori misura se si tiene conto che la
popolazione italiana è la ventiduesima parte circa di quella cinese. È facile
fare i conti. E l’andamento rimane vorticosamente in salita, mentre la Cina sta
riuscendo a spegnere l’incendio. Appare allora davvero difficile che l’Italia,
che in questo momento costituisce il maggiore focolaio epidemico della Terra,
possa risolvere la situazione facendo leva solo sulle proprie risorse, che pure
sono importanti in termini di donne e uomini operativi, mezzi, tecniche,
solidarietà e capacità di abnegazione. Occorre che vengano sperimentate
decisioni radicali, nuove, che non coinvolgano soltanto il Paese, perché tutti
alla fine siamo dentro la partita. Quando si sente dire da operatori sul campo,
con amara e sincera sofferenza, che si è costretti a «scegliere» i contagiati
da salvare, da far vivere, come nelle peggiori condizioni di guerra, si capisce
che sta avvenendo qualcosa di tragico, che, oggettivamente, per uno stato di
necessità che trascende principi forti di carattere morale, fa arretrare di
molto le lancette dell’orologio, in un’età come la nostra in cui pensatori come
Amartya Sen e, più specificamente, John Rawls, hanno dato un peso decisivo di
civiltà alla giustizia come equità, cioè ai diritti dei più deboli, dei vecchi,
dei malati, dei diversamente abili. Ed è significativo che sia l’Africa
profonda a offrire al riguardo una lezione straordinaria, quando avverte, in un
proverbio, che «ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia». La domanda
che si pone allora non è «dove stiamo andando». È invece: «dove stiamo
rifluendo», «quale mondo ci sta risucchiando», «in quale spirale rischiamo di
finire».
Non serve e non bisogna andare a caccia di untori: anche questo dà conto di
un arretramento, civile, morale e culturale. Il governo del Paese, al di là di
possibili indugi iniziali, si sta muovendo con energia, bisogna riconoscerlo,
e, seppure con delle discordanze, lo stesso stanno facendo le Regioni. L’Italia
è ormai divenuta, sostanzialmente, un’unica «zona rossa». Ma tutto ciò basta?
Intrecciamo le dita, lo speriamo fortemente, ma, è il caso di ribadirlo,
potrebbe non bastare. Ed è questa insicurezza degli esiti, che verosimilmente è
mancata nel mondo cinese, a fare la differenza e a creare disagio. Allo stadio
ormai raggiunto, il focolaio Italia può avere esiti immensi, imprevedibili, in
tutti i sensi, come se ne sono avuti nel passato lungo, quando grandi epidemie,
provenienti spesso dall’Asia, hanno flagellato il Mediterraneo e l’Europa.
Vorrei proporre allora una riflessione. Esiste una Unione Europea. Esiste
una Organizzazione Mondiale della Sanità. Esistono altre realtà sovranazionali.
Esiste inoltre una tradizione di solidarietà allargate che si manifesta nei
casi di grandi calamità, terremoti, inondazioni, maremoti, e così via.
L’Italia, senza dover rinunciare ad un grammo del proprio orgoglio civile, deve
manifestare e porre nero su bianco una grande richiesta d’aiuto. È importante
che dall’Europa e da altri continenti arrivino nel nostro Paese eserciti di
virologi, rianimatori, anestesisti, infermieri. È importante che giungano
inoltre convogli di tir con strumenti e presìdi sanitari, apparecchi per la
ventilazione respiratoria, mascherine, strutture prefabbricate e altro, che in
questo momento scarseggiano in maniera drammatica. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità, in particolare, non può limitarsi a ringraziare il governo
italiano per quanto sta facendo. Occorre che si faccia di più, in tempi
strettissimi. È importante che si inneschi una grande mobilitazione
istituzionale e civile, ed è fondamentale che lo spegnimento del “focolaio
Italia” passi ai primissimi posti dell’agenda politica globale. Senza che tutto
ciò avvenga si può solo sperare, e sperare, come testimonia appunto la storia,
non basta a scongiurare il baratro.
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