Alcide Cervi, papà dei 7 partigiani uccisi |
"Mi
hanno sempre detto 'tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli
sono stati falciati, e la quercia non è morta' la figura è bella e qualche
volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona
nemmeno per il fuoco [...] Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare
avanti […] I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che
facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si
ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si
sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di
Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la
semente di ogni campo, la luce di ogni strada”
LA STORIA - 28 dicembre ’43, i fascisti fucilano i sette fratelli CerviI sette fratelli Cervi assassinati dai nazisti |
Il papà
Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà
prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà
bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era
accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza. “Dopo che
avevo saputo – dirà nel volume I miei sette figli, dato alle stampe
nel 1955 – mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo
salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e
gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi.
E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi
l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano
l’ultimo addio”. Venuto a sapere dell’eccidio, papà Cervi riuscirà a ritrovare
le tombe dei sette ragazzi solo tempo dopo.
Dirà il
giorno dei funerali – che si svolgeranno il 25 ottobre del 1945, quasi due anni
dopo la loro morte – “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare
avanti […] I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per
quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco
suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani
morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in
questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e
un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.
“Ho
raccontato la storia della famiglia e mia – dirà nelle conclusioni del volume –
come il cuore ha saputo. L’ho raccontata e mi è costato fatica e
dolore, ma avevo uno scopo. Dirle queste cose a tutti i padri di
famiglia italiani che vivono di stenti e di sopportazioni, che
invecchiano di lavoro per fare i figli grandi e contenti dei padri. Dirle prima
di tutto ai vecchi come me, che sono stati traditi tutta la vita dai
padroni, dai governi e dalle guerre, e adesso si ritrovano come a vent’anni
senza lavoro e soldi, senza un sigaro da fumare, senza pensione o con
cinquemila lire al mese, e con tanta voglia di morire per non avere più bisogno
di mangiare e chiedere. Ai vecchi braccianti dell’Italia affamata di
terra e di lavoro, che per tutta la vita sono stati zappe e badili che si
prendono in affitto solo qualche mese all’anno, e per il resto devono inventare
mestieri quando l’inventano, per resistere fino all’altra stagione. Ai
fratelli contadini poveri del Mezzogiorno, che col sangue e la lotta hanno
fatto più grande la bandiera rossa. Ai mezzadri compagni miei che i padroni gli
rubano metà del raccolto, e loro danno all’Italia solo ignoranza e
tradimento. Agli impiegati degli uffici che sanno come va male
lo Stato e chi sperpera i soldi, mentre loro devono fare lavori in più e stanno
sempre con la paura che nascono figli. Agli intellettuali che
non possono creare l’utile, perché oggi la cultura che frutta è quella per
l’inganno e la guerra, e i maestri non hanno lavoro e gli analfabeti non hanno
maestri. Agli operai licenziati d’Italia, che potrebbero salvare lo
Stato con l’intelligenza e l’onestà, e non riescono a salvare i figli dalla
fame e dalle malattie. A voi tutti, dico: rifate come ho fatto io la storia
della vostra famiglia, e vedrete che dicono tutte la stessa cosa. Perché
la natura grida forte che cosa bisogna fare, la società pure, ma gli uomini ancora
tutti non capiscono e si fanno il male con le mani loro. […] A casa mia ho
raccolto più di ottanta prigionieri, per lo più inglesi e americani, venivano
stracciati e con i pidocchi, certi in mutandine, e ritornavano via puliti,
vestiti, ingrassati. Le nostre donne lavoravano fino all’una di notte per
preparargli i vestiti e le camicie, compravano perfino i polli per dare la
carne fina ai feriti e agli ammalati, quando c’erano rimaste solo le galline da
uova. Sette figli hanno pagato per queste opere di bene, e la madre se ne è
andata con loro per crepacuore. […] Quando mi dissero della morte
dei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non
viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male. Avevo
cresciuto sette figli, adesso bisognava tirar su undici nipoti. Dovevano
prendere ognuno il posto dei padri, e bisognava insegnare tutto da capo. Quando
tornai dal carcere due mesi dopo nacque il terzo figlio di Gelindo, e gli
mettemmo il nome del padre. Questo dunque era il più piccolo e la più grande
aveva dieci anni, Maria, figlia di Antenore e di Margherita. Erano piccoli,
perciò, ma io gli insegnai lo stesso. […] Guardate la mia famiglia: avevo sette
figli, e ora ho undici nipoti. Avevamo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di
bestiame, con la produzione del grano che è salita a cinque volte quella del
‘35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da
scontare per trent’anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore. Non faranno
più San Martino. E quando c’è da ascoltare il padrone per fare qualche
miglioria, si riunisce il consiglio di famiglia e quello che decide è ben
fatto. In più, abbiamo dato sette vite alla patria. Se c’è bisogno di dare
ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravvivrà, e rimetterà
tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più. […] Che il
cielo si schiarisca, che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri
morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra
e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla
madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: la terra non è più
come quando tu c’eri, sulla terra si può vivere, e non solo morire di
crepacuore. E ai figli, dirò: l’Italia vostra è salva, riposate in pace,
figli miei”.
Sangue
del nostro sangue
Nervi dei
nostri nervi
Come fu
quello dei Fratelli Cervi
Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil
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