di CARLO RUTA
(storico e saggista)
I numeri dell’infezione in Italia si confermano enormi. La cifra dei morti
registrata da domenica 22 febbraio ad oggi, cioè in appena 5 giorni, ha
superato quelli che la Cina ha contato in quattro mesi. E il cauto ottimismo
che veniva esibito da vari ambienti da qualche giorno, per la lieve flessione
nell’aumento dei contagi, ha lasciato il posto, ancora una volta, alla
disillusione, ad una realtà che, come si è cercato di documentare da un po’ di
giorni, sfugge ormai ad ogni controllo e che richiede, è il caso di ribadirlo
ancora, uno sguardo più lungo e una correzione severa del paradigma.
Le semplificazioni, in una fase di emergenza come questa, non aiutano
infatti a comprendere e a muoversi nel modo più idoneo. Bisogna cominciare a
scomporre i dati, molto differenti da regione a regione, guardare in faccia la
realtà mettendo da parti la superbia del restare fedeli ai propri modelli,
anche quando si dimostrano inefficaci, e, infine, cominciare a prestare una
maggiore attenzione all’ascesa virulenta dell’infezione in altri Stati europei,
che rischia di abbattersi sul Paese come un’onda di ritorno. Spero di riuscire,
una volta ancora, a farmi capire e continuo a sperare che esista un qualche
«giudice a Berlino».
Ad una lettura disincantata delle cose, continua ad emergere in realtà che
l’emergenza sanitaria non è più risolvibile nei tempi brevi con i mezzi di
contrasto che sono stati impiegati: le ragioni, suggerite anche da uno sguardo
retrospettivo, dall’anamnesi delle grandi epidemie del passato, sono state già
esposte e non è il caso di ritornarci. Ma la situazione va aggravandosi perché,
da un lato il morbo, dall’altro una serie di misure adottate senza i dovuti
distinguo, stanno producendo una ulteriore emergenza, economica, quindi sociale
e civile, mentre peggiora la scena complessiva, globale.
Il morbo avanza appunto in tutta Europa, con picchi esorbitanti in Spagna,
dove i ritmi sempre più ricalcano quelli italiani, e si sta radicando negli
Stati Uniti, con epicentro a New York, megalopoli irradiante per definizione,
con tutto quel che di tragico può derivarne. Il maggiore focolaio del contagio
in questo momento rimane comunque l’Italia, dove è fin troppo facile prevedere
che tra 4-5 giorni i morti supereranno i 10.000, ossia tre volte tanto quelli
contati dalla Cina da novembre ad oggi, mentre si aggrava la situazione nelle
aree del Paese che nella prima fase sono risultate meno colpite.
Malgrado l’isolamento in casa delle famiglie italiane e l’arresto di gran
parte delle attività economiche, il contagio diventa sempre più impetuoso nel
Nord, sale pericolosamente nelle regioni del Centro, come testimonia tra
l’altro il caso Fondi, e rischia d’impennarsi nelle aree meridionali, dove
cresce intanto il disagio economico. In Sicilia, dove i livelli di povertà, di
sottoccupazione e di precariato sono elevati a prescindere, e dove la chiusura
delle attività economiche può sfocare in fenomeni sociali destabilizzanti, sono
stati ufficializzati già oltre mille contagi, e non è facile prevedere cosa
potrà accadere nelle prossime settimane, anche a causa delle decine di migliaia
di persone che dal Nord si sono riversate nei luoghi d’origine.
Non ci si può fermare allora ad una lettura semplificata dei dati e dei
fatti, che chiamano invece ad atti consapevoli delle comunità, del paese
civile, dell’opinione pubblica, e non solo di chi è chiamato a responsabilità
di governo e di intervento sanitario. Un paese civile bene informato e
consapevole può riuscire ad impedire infatti che si vada ad esiti ancora più
catastrofici. Mi si consenta allora, ancora una volta, una breve digressione,
alche per fugare alcuni possibili equivoci di fondo.
La storia delle grandi epidemie documenta che il morbo finisce solitamente
con lo sconvolgere il sentire comune. La paura di un’entità enigmatica che
corrode i corpi tende a generare una sorta di «virus» percettivo e
rappresentativo, che corrode le menti, sobilla l’immaginario, alimentando stati
di tensione in grado di procurare ulteriori danni materiali. Determina in
sostanza uno stato d’insicurezza, impedisce lo sguardo sul futuro, mentre viene
meno la facoltà di attingere, in tutto o in parte, al consueto paniere di
risorse. Tale condizione è capace di sommuovere i costumi identitari, le regole
morali, le dinamiche di gruppo e perfino familiari, mentre tende a intrecciarsi
biecamente con il tarlo del pregiudizio, preesistente e connaturato ad ogni
epoca, che in contesti simili porta a bollare come responsabili del contagio le
«alterità» sociali, etniche, politiche, religiose, ideologiche, e così via.
Tutto ciò interagisce quindi con le questioni sociali, le tensioni economiche e
le conflittualità di ceto, offrendo anche l’opportunità di regolare ogni sorta
di conti preesistenti. Nella peste del 1347-50 crebbe la caccia agli Ebrei,
ritenuti responsabili del contagio. Nel colera dell’Ottocento si andava a
caccia degli avvelenatori, che venivano individuati spesso in ambienti
istituzionali, negli organi di polizia e nei ceti più facoltosi, accusati
spesso di voler ridurre la popolazione per difendere le loro ricchezze.
Il quadro odierno presenta purtroppo anche questo tipo di «ricorsi»,
esaltati peraltro dai social, con la parte dell’avvelenatore attribuita di
volta in volta ad una Cina cospiratrice contro l’Occidente, ad un Putin
lanciato contro l’Europa e l’America di Trump, alle grandi case farmaceutiche
interessate al controllo globale dei vaccini, ai sistemi politici decisi a
liberarsi di un bel po’ di anziani, e così via farneticando. Ma a fronte di
queste assurdità, possono rivelarsi ancora più spiazzanti gli atteggiamenti
fatalistici, catatonici e afasici, che possono ravvisarsi, purtroppo, anche là
dove non dovrebbero esistere proprio.
Per vincere occorre lanciare una sfida di
consapevolezza, liberandosi da ogni filtro distorcente, deformante o riducente.
Se mi si consente di impiegare ancora una volta, con un po’ di disagio, la
metafora della guerra, dal Cesare del De bello gallico si
evince con chiarezza l’atteggiamento e la strategia di fondo dei Romani al
cospetto dei Galli e dei Germani, nelle fasi in cui tali popoli, «barbari»,
impedivano l’estensione del limes. Era ben chiaro ai comandanti
delle legioni che la percezione non corretta dello scenario bellico costituisce
un danno a prescindere, e tale consapevolezza contribuì di certo alla longevità
di Roma. Da gennaio di quest’anno, la visione delle cose difetta radicalmente.
Appare perciò ben chiaro il rischio che l’Italia sta correndo.
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