di Alan David Scifo
I ragazzi rimasti, tra i mille abitanti, hanno deciso
di guardare altrove e aprire industrie agricole “ Vogliamo toglierci
l’etichetta di paese di mafia, siamo stanchi di essere associati a don Calò
Vizzini”
Un carcere a Villalba, nel paese di don Calò
Vizzini. Sembrava essere un primo passo verso la redenzione di un luogo
marchiato a fuoco dalla persona simbolo della mafia, vissuto a cavallo tra le
due guerre mondiali, ma alla fine questo passo non si concretizzò. Costato 8
miliardi di lire, quell’immensa incompiuta che segna l’ingresso di Villalba,
paesino tra i monti di Caltanissetta, non ha mai aperto i battenti.
In quel paese si fermò anche il viaggio di Pippo Fava, che due anni prima
della sua morte descrisse, tra coppole e donne vestite di nero, uno spaccato
della mafia raccontando il viaggio da Villalba a Palermo per la Rai.
Nell’enorme piazza che in una mattina conta più auto che persone, c’è chi però
è stanco della solita cantilena della mafia associata al paese di Villalba, la
cittadina di Calò Vizzini, il mafioso, appartenente alla cosca nissena dei
Varsallona, scagionato in diversi processi per insufficienza di prove,
nonostante su di lui pendessero accuse di omicidio e furti, e alla fine sindaco
di Villalba nel travagliato passaggio storico della liberazione della Sicilia
da parte delle truppe americane dopo la Seconda guerra mondiale.
«Siamo stanchi di essere associati continuamente a don Calò — spiega Jim
Tatano, giovane giornalista e scrittore, tra i pochi ragazzi rimasti ancora a
Villalba — questa è la terra che ha dato i natali a personaggi come Michele
Pantaleone, uno dei primi giornalisti siciliani a scrivere di mafia, nel 1962
con la pubblicazione del testo “Mafia e politica”».
Se in quegli anni Villalba era una terra popolata, sfiorando anche le 5
mila persone residenti, oggi, quando i cittadini sono appena mille, di quegli
anni non rimane che il ricordo, di piazze piene e di agricoltori raccolti per
ascoltare i comizi del partito socialista, di cui lo stesso Pantaleone era un
esponente, in aperto scontro con Vizzini, i cui scagnozzi lanciarono, in un
episodio ancora famoso, delle bombe durante un comizio. Di quei tempi, di
piazza Vittorio Emanuele e dei contadini in rivolta davanti il balcone dei
comizi rimangono adesso solo le foto in bianco e nero, alcune celebri come
quelle di Ferdinando Scianna e di Sergio Larrain. «L’etichetta di paese di
mafia è un’etichetta che vogliamo toglierci — racconta ancora Jim Tatano —
ancora oggi circolano aneddoti e addirittura barzellette su Vizzini. Ma
noi siamo anche altro. In pochi raccontano infatti la storia di Michele
Palmieri, letterato oggi studiato in Francia, amico di Dumas e di Stendhal, che
a lui dedica un capitolo della Certosa di Parma».
I ragazzi rimasti hanno deciso di guardare altrove e aprire industrie
agricole dedicandosi all’altro simbolo di Villalba: la lenticchia. Alla
coltivazione di questo prodotto, lavorano infatti diversi giovani che hanno
deciso di sfruttare l’opportunità, lavorando all’ombra dell’affascinante “Rocca della finestra” che sembra rappresentare ai villalbesi un “bacio” tra due
massi rocciosi.
«Sono laureato in Ingegneria edile — racconta Filippo Calafato presidente
associazione produttori lenticchie di Villalba — ma ho deciso di rimanere qui
per custodire questo patrimonio e non disperdere i sacrifici di mio padre». La
coltivazione della lenticchia di Villalba era sparita, dopo il suo culmine
negli anni Sessanta, ma grazie ai nuovi produttori è stata riscoperta e oggi
viene venduta in tutta Italia: «Siamo riusciti a ottenere il presidio slow food
per la tutela della lenticchia e adesso stiamo iniziando ad esportare il
prodotto unico anche all’estero».
Tra i terreni del paesaggio villalbese, più di 10 ragazzi sono coltivano
oggi lenticchie e pomodori “ siccagni”, come Giuseppe Ricottone, vicepresidente
37 enne del consorzio di tutela: «Da un ventennio abbiamo riscoperto la
produzione di questa lenticchia certificata come unica per via del ferro che
contiene. Rimanere qui non è facile ma non molliamo e partecipiamo ogni anno a
fiere ed eventi in tutta Italia per far conoscere questo prodotto, lavorando
anche per ottenere il marchio Dop».
I segni del passato restano però visibili. Poco più in là della montagna
dove si coltivano lenticchie si vede però uno degli ultimi simboli di
“malapolitica”: un ristorante in cima alla collina, ultimato con fondi europei
nei primi anni Duemila per farne una struttura di accoglienza turistica, ma mai
aperto al pubblico e oggi irraggiungibile. Se infatti milioni di euro sono
stati spesi per la struttura, nessuno ha pensato ad aggiustare le strade
per raggiungerlo.
La Repubblica Palermo, 6 marzo 2020
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