di PAOLO G. BRERA
ROMA — Dieci medici e venti infermieri. Non è l’Armata invincibile ma
un piccolo commovente plotone che ieri l’Albania ha inviato in Italia a darci
una mano. Il premier Edi Rama li ha accompagnati in aeroporto, e con un video
saluto ci ha stesi per empatia. La stessa che l’Europa ha finora lesinato.
«Tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere - ha detto Rama - e anche paesi
ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, Noi non siamo ricchi e neanche
privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che
non abbandoniamo mai l’amico in difficoltà. Oggi siamo tutti italiani. È casa
nostra, da quando sorelle e fratelli italiani ci hanno salvati, ospitati e
adottati».
Chiuso in casa come tutti, Rama guida la lotta su un fronte interno con 212
casi confermati, 10 morti e 33 guariti. Il Paese è in lockdown, la paura è
enorme.
Li mandate in Italia per ricambiare gli aiuti ricevuti?
«Non solo. Il nostro legame con l’Italia è fortissimo. Ho parlato con Luigi
(Di Maio, ndr ) e lui ha detto subito "sì, abbiamo bisogno, ci
sarebbe di grande aiuto". Li mandiamo in missione per una trentina di
giorni, a nostre spese».
Da dove è venuto il virus in Albania?
«Il paziente zero veniva dall’Italia: siamo stati i primi in Europa a
chiudere scuole e università, e a fare un lockdown totale. Sembra che le
misure stiano dando frutti».
Perché aiutate proprio l’Italia?
«La nostra amicizia non è episodica, esiste da quando siamo usciti dal
bunker del comunismo reale.
Quando ho accennato alla nostra iniziativa, tutto il popolo albanese ha
applaudito con entusiasmo. Nessuno ha detto: siamo nei casini anche noi,
abbiamo bisogno di medici e infermieri, se collassa un sistema di sanità
avanzato come quello lombardo come facciamo a mandare le nostre riserve? No,
gli albanesi sono contenti e fieri di aiutarvi».
L’aiuto italiano dopo il terremoto è stato concreto?
«Sì, Il terremoto c’è stato alle 4 di mattina, ho scritto messaggi a tutti
e il premier Conte è stato tra i primissimi a rispondermi. In giornata è
arrivata la Protezione civile e ha iniziato a salvare vite».
Chi sono i trenta inviati?
«Dieci medici e venti infermieri: a inizio epidemia avevamo fatto appello a
personale sanitario di diverse generazioni per iscriversi volontariamente in una
lista di riservisti nel caso la pandemia fosse andata oltre le capacità di
rianimatori, medici e infermieri già operativi nei nostri ospedali. Da
quell’elenco abbiamo fatto una chiamata... sottovoce. Non sapevamo come
avrebbero reagito, era loro diritto dire no, avere magari paura; ma è stato
incredibile, la ministra della Sanità ha fatto un giro di telefonate e ha
trovato tutti pronti a partire».
Rischiano per un altro Paese.
«In aeroporto c’erano giovani medici e infermieri che non lo avevano detto
neanche ai genitori, temevano che dicessero di no. È una vera guerra, Mi hanno
detto: li avvertiremo solo all’arrivo. Almeno due di loro hanno studiato
Medicina in Italia».
Sono già formati e attrezzati?
« Completamente pronti: ho voluto che la missione fosse interamente a
spese nostre. Abbiamo messo a loro disposizione un salario italiano, e pagato
tutto il materiale. Faranno un’esperienza di prima linea in guerra, e la
riporteranno in Albania dove abbiamo già la nostra guerra e i nostri caduti»,
Come aiutate gli albanesi?
«Portiamo cibo a casa ai meno abbienti a cui dal primo aprile abbiamo
raddoppiato il sostegno mensile. C’è un salario minimo per quelli che sono a
casa per la chiusura del loro piccolo business: 123mila famiglie. Ma dobbiamo
aiutare anche chi viene lasciato a casa , e le imprese del turismo: settore
fondamentale»
La Repubblica, 30 marzo 2020
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