di CARLO RUTA
Prima di andare all’oggi ritengo importante un preambolo storico, che può
aiutare a comprendere meglio lo stato delle cose. Le pestilenze, di ogni tipo,
appartengono a tutte le epoche, sin dai primordi della storia umana. Hanno
falciato popoli, atterrato civiltà, sovvertito poteri, inghiottito città
fiorenti. Nel mondo antico venivano considerate un castigo degli dèi, come nel
mito di Edipo, re parricida della città di Tebe. E venivano contrastate, oltre
che con rimedi suggeriti da grandi medici come Ippocrate e Galeno, con
scongiuri e rituali, allo scopo di placare la collera delle divinità.
Nel Medioevo, tuttavia, dal punto di vista medico complessivo, subentrava
un atteggiamento diverso, attraverso la tradizione della «Scuola di Salerno»,
la tradizione arabo-persiana, di Avicenna in particolare, e, dal XIII secolo,
attraverso le pratiche e le elaborazioni delle università del tempo, gli
Studia. E al crepuscolo di quell’età, in particolare nei contesti della Peste
Nera e di poco successivi, tra il XIV e il XV secolo, avveniva un poderoso
balzo in avanti sul piano organizzativo, con la nascita dei primi luoghi di
cura specifici, i lazzaretti, con il sostegno forte degli ordini regolari
cattolici, e con l’introduzione della quarantena. Ma tutto ciò nei secoli a
venire non ha impedito alle pestilenze di flagellare le società umane per anni,
anche ciclicamente.
Da ciò si ricava allora, in maniera direi deduttiva, che a fare la
differenza della medicina contemporanea nei risultati contro le grandi epidemie
non è stato l’isolamento degli infettati in sé e per sé, per quanto necessario
ovviamente, ma un insieme di risorse che nelle altre epoche mancavano: ospedali
bene organizzati, gli antibiotici, i farmaci cortisonici, i vaccini, i
disinfettanti, gli ambienti di terapia intensiva, i respiratori artificiali,
gli strumenti e gli indumenti protettivi e altro ancora. Solo con questi mezzi
è stato possibile fermare, in molti casi, le grandi diffusioni virali e le loro
ciclicità.
Per debellare il contagio del coronavirus, la Cina lo insegna oltremodo,
occorre mettere perciò in campo tutto ciò che di più importante il mondo
contemporaneo ha prodotto e sta producendo in campo medico. Ma in Italia, oggi
epicentro della pandemia, le cose stanno andando in questa direzione? Sarebbe
bello poter dire sì, ma i fatti vanno, purtroppo, in tutt’altra direzione. E
l’alta percentuale di morti, ormai conclamata, vicina al 7 per cento, lo
dimostra ogni ragionevole dubbio, malgrado si continui ad associare questo
dato, davvero eclatante, all’età media degli italiani: leggermente superiore,
di uno «zero virgola qualcosa», a quella di altri paesi. In realtà, riesce
assai difficile scorgere tra i due elementi una qualche correlazione.
Intanto, alla buonora, l’OMS ha messo nero su bianco quello che è ormai
evidente da un bel po’ di giorni, cioè che l’Europa è il nuovo epicentro della
pandemia globale. Viene tuttavia scarsamente considerato il dato più
caratterizzante: il fatto cioè che la partita decisiva in questa fase si sta
giocando, non più nella provincia di Hubei, in Cina, ma in Italia, dove i
contagi e i morti giornalieri si attestano, al momento, al raddoppio ogni
tre-quattro giorni.
Ora, fare la Cassandra non è solitamente un bel mestiere, ma la situazione
non promette bene, e di questo occorre prendere atto. Le ulteriori misure
restrittive adottate dal governo italiano per contenere il contagio sono
legittime e lo sforzo è encomiabile. Ma, diciamocelo francamente, non possono
bastare, mentre la scena del contagio rischia di scompensarsi sempre più
pericolosamente. Giorno dopo giorno i numeri ci avvertono con chiarezza che la
coesione e il senso di responsabilità di gran parte degli italiani non possono
bastare, da soli, a scongiurare perdite massicce di vite umane. Lasciamo allora
che siano i numeri a parlare.
Da più parti si dice che il picco potrebbe essere raggiunto a fine marzo.
Ma si tiene poco conto del fatto che da qui a quella data, quando potrebbero
essere avvertiti più utilmente gli effetti della «quarantena» nazionale in atto,
esiste un vero e proprio abisso temporale, perché tutto sta accadendo in
maniera incalzante. L’andamento dei contagi e dei morti lascia supporre
ragionevolmente effetti preoccupanti già da qui al 24 marzo, cioè entro appena
10 giorni. Se la curva dei contagi rimane infatti più o meno inalterata, ossia
se non si riduce drasticamente, tra 10 giorni i contagiati potrebbero
attestarsi tra i 70 e gli 80.000 e i morti potrebbero attestarsi tra i 5 e
6.000. Potrebbero essere superati in sostanza, in meno di un mese dalla conta
ufficiale dei primi casi di contagio in Italia, i numeri che la Cina, paese di
oltre un miliardo e 300mila abitanti, ha registrato in oltre quattro mesi. Si
rischia in sostanza una vera ecatombe, e si rischia, più in particolare, che la
situazione, prima che si arrivi a fine mese, finisca interamente fuori
controllo, con inevitabili effetti a catena.
E vediamoli allora questi effetti a catena, in parte già presenti e
tangibili. Il primo, davvero micidiale, è che proprio a causa di tali incrementi
severi dei contagi, a fronte degli scarsi mezzi posseduti, i luoghi di cura
rischiano di diventare essi stessi luoghi di diffusione dei contagi, come
avveniva nella Milano seicentesca narrata dal Manzoni, quando non moriva solo
il «popolo basso», ma anche i medici, i religiosi che assistevano i malati e i
monatti, oltre che, ovviamente, i Don Rodrigo, i Griso e i loro bravi. È quanto
comincia ad accadere appunto: con decine e decine di medici, paramedici e altri
addetti ospedalieri che sono finiti essi stessi contagiati e in quarantena.
Un altro effetto riguarda la sorte dei malati gravi in Italia, come i
cardiopatici, che hanno bisogno di cure costanti, e come i malati oncologici,
che raggiungono nel Paese, secondo le stime del 2019, la cifra di 371.000
unità. Da questi versanti della sanità pubblica in questo momento appare tutto,
o quasi tutto, congelato. Si constata che le terapie, anche necessarie, sono in
grandissima parte rimandate a tempi «migliori». E sulla stessa barca si
ritrovano altri malati. Si possono avere allora ben pochi dubbi sul fatto, che
a causa di questa paralisi sostanziale, presto si conteranno morti aggiuntivi.
Altro effetto è poi lo sciacallaggio, tipico delle guerre e dei terremoti, con
la «borsa nera», ad esempio, dei mezzi protettivi, come le mascherine che
vengono messe all’asta a prezzi da borsa nera: fino a 30-40 volte il prezzo di
appena un mese fa.
Ciò malgrado, se lo si vuole fino in fondo, se l’Europa lo vuole veramente
e tiene a preservare sé stessa, non solo sul piano morale, la partita contro il
coronavirus può essere vinta. Faccio un esempio. L’Italia, a detta di varie
fonti, possiede solo 5-6.000 respiratori, e per tentare di fermare il contagio
nei prossimi dieci 10 giorni ne occorrono verosimilmente non meno di 20-25
mila. La Germania ne possiede invece, ancora secondo una varietà di fonti,
25.000. Si tratta allora di dimostrare che l’Unione Europea esiste e che è
tanto lungimirante da comprendere che atteggiamenti egoistici in questa
situazione possono diventare autolesionistici per tutti. Se i cinque maggiori
paesi dell’UE, ai primi posti del PIL mondiale, e altri Stati volenterosi,
insieme, fossero in grado di far pervenire al nostro Paese i 20.000 respiratori
che mancano, e tutte le altre risorse sanitarie che scarseggiano, il primo
effetto potrebbe essere la regressione della mortalità a quel 2,5% circa che ha
fortemente aiutato la Cina a fuoriuscire dal tunnel.
Rimane allora una lotta contro il tempo. Parlavo alcuni giorni fa di
convogli di tir carichi di macchinari e prodotti medici da far convergere
sull'Italia. Ero ottimista. Credo che a questo punto si debba parlare piuttosto
di un ponte aereo, che agisca con massima rapidità, che sia nelle condizioni di
utilizzare, oltre che le forze della Protezione Civile, la logistica militare
nazionale ed europea.
Tutto può mutare ovviamente. Anche questo
insegnamento viene dalla storia, quando si tratta di grandi epidemie e di
guerre. Si pensi al ritiro degli Unni di Attila nel 452 d.C. quando tutte le
difese di Roma erano cadute. Si pensi ancora, all’arresto dell’onda Mongola,
nella prima metà del XIII secolo, quando ormai era ad un passo, nei Balcani,
dal portarsi nell’Europa occidentale. Ma la storia ci dice anche di Alamo nel
1836, quando nell’attesa dei rinforzi, che non arrivarono, nell’accampamento
degli assedianti del generale messicano Antonio López de Santa Anna si
continuava a suonare ininterrottamente, giorno e notte, la «danza della morte».
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