di Enrico del Mercato
Esce oggi " La notte della civetta" di Piero
Melati: un’analisi sulle ombre di un’Isola dove " buoni e cattivi" si
confondono. La memoria degli anni più bui
Deve essere successo nel tempo remoto in
cui nuotano i Miti. Un giorno Colapesce deve essersi stancato di reggere la Sicilia
e deve averla lasciata andare trasformandola così in una zattera alla deriva
nella Storia, in una nave - come quella di Benito Cereno di Melville
- che vagola per i mari e a bordo della quale non si capisce mai chi siano
davvero i buoni e chi i cattivi; chi gli ammutinati e chi i leali al misterioso
capitano che la comanda. A bordo di questa nave che le maree, ad intermittenza,
portano nel centro esatto del fluire della Storia o lontanissima dagli
accadimenti che ne caratterizzano un periodo, è salito Piero Melati portandosi
appresso la memoria del cronista e la conoscenza delle mappe dell’intellettuale
e ricavando da questo suo viaggio nella storia recente della Sicilia un libro
sulla mafia che, però, non è soltanto un libro sulla mafia.
Piuttosto, è un
libro sull’essere siciliani e, dunque, fatalmente "diversi" comunque
impossibilitati a raccontare e a essere raccontati se non attraverso la
filigrana del "mostro" (come lo chiama Melati) e della grande
costruzione epica che i siciliani stessi hanno eretto in nome del mostro
mafioso. Il calembour che dà il titolo al libro - La notte della civetta,
storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia, edizioni Zolfo- segna la
missione che Melati attribuisce al suo viaggio allucinato e lucidissimo insieme:
provare a capire se il finale può essere cambiato. Il gioco di parole rimanda
al romanzo che rivelò, per primo all’Italia intera, cosa fosse la mafia e come
la Sicilia- terra metaforica per decisione degli dei- fosse l’inconscio della
storia italiana, il suo incubo.
Ne "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia - uno dei
componenti dell’equipaggio della nave Sicilia che dopo avere rivelato la
portata della mafia dovette passare all’esame di chi lo accusò di subirne la
fascinazione- il finale non è lieto: don Mariano Arena, il boss consegnato alle
enciclopedie dello stereotipo dalla famosa frase su "uomini, mezzi uomini,
ominicchi, quaquaraquà e piglianculo" viene assolto e torna libero e
potente. Ecco, quello di cambiare il finale, di ribaltarlo è il cruccio che
alcuni dell’equipaggio della nave Sicilia si sono portati fin nella tomba. Ci
racconta Melati- in uno degli episodi che possono apparire laterali e che
invece segnano la storia del libro e di Tombstone ( la città della lapidi che è
Palermo e che è la Sicilia intera)- che quello stesso cruccio si impadronì di
Leonardo Sciascia quando, nel 1968, Damiano Damiani lo invitò alla prima del
film tratto dal suo romanzo. Lo scrittore rimase sconcertato quando vide che il
pubblico applaudiva don Mariano e lo applaudiva proprio mentre il mafioso,
interpretato da James Lee Cobb, esplicitava la sua visione del mondo e degli
uomini.
Del resto, come si potrebbe spiegare il fatto che leggendo " Il
gattopardo" e guardando il film che ne trasse Luchino Visconti il pubblico
empatizzi con il " principone" don Fabrizio - esponente di una classe
sociale rapace e molle, che si rifiuta per pigrizia mascherata da saggezza
perfino di assumere il ruolo politico che gli offre l’inviato dei Savoia e,
dunque, di mettersi finalmente in gioco nei destini del nascente Paese- e
avversi di default l’emergente Calogero Sedara che, nel suo gretto pragmatismo,
interpreta comunque la nascente classe dei nuovi borghesi che segnerà il
Novecento che si approssima?
Insomma, la Sicilia non gira mai sugli stessi ritmi della Storia, appare
distopica, in ritardo, lontana dal centro degli accadimenti. E, invece, della
Storia - in molti casi- è il motore nascosto. « Se la Sicilia è davvero una
forma dell’inconscio dell’Italiaavverte Melati- accade esattamente quel che
accade quando un singolo individuo pretenda ( senza metodo e scienza) di
mettere mano al proprio inconscio. Apri la porta di questo armadio a muro
carico delle cianfrusaglie nascoste e quella massa di cose stipata alla rinfusa
ti crolla addosso con gran rumore. E ci manca poco che ti seppellisca » . Il
metodo che il " personaggio senza nome" protagonista del libro
adotta, è quello della memoria. La memoria dei fatti visti, non visti,
colpevolmente taciuti che hanno scandito il tempo in cui l’Isola - metafora ha
costruito, con mattoni insanguinati, il muro dell’incubo italiano.
Si potrebbe perfino cominciare dalla strage di Portella della Ginestra, dal
primo grande mistero siculo- italiano manifestatosi sulla scena nell’imminenza
delle decisive elezioni del 1948, all’indomani delle prime elezioni regionali,
nel 1947, che segnarono un’avanzata del blocco delle sinistre preoccupando
l’allora ambasciatore americano che inviò una allarmata relazione a Washington,
ma il motore della memoria del protagonista senza nome- siciliano andato via
dalla Sicilia e come tale posseduto dalla maledizione di «non poter vivere con
la Sicilia né senza di essa- si accende sugli appunti relativi all’estate del
1985 quando per la prima volta, davanti ai suoi occhi, nella canicola
psichedelica dell’agosto palermitano compare la Fata Morgana, che crea miraggi,
che attenua i contorni e, dunque, all’occhio attento svela nuove dimensioni. In
quell’agosto, la mafia uccide Ninni Cassarà, poliziotto cacciatore di mafiosi.
Il " mostro" sfoggia in quella occasione la sua potenza militare e la
sua capacità di comandare un territorio dal momento che chiude al traffico la
strada in cui si consuma il delitto. Sono storie note che, però, Melati "
smargina" per ricavarne un senso nuovo, capace, intanto, di tener conto di
coincidenze e sciasciane incidenze. Del gruppo di fuoco che trucida
Cassarà fa parte, per esempio, Pino Greco "scarpuzzedda" killer
di Cosa nostra reso, ahinoi, mitologico dalla propensione sguaiata all’epica
che si impadronisce dei siciliani riguardo ai fatti di mafia. Pino Greco
frequentava lo stesso liceo di Cassarà, il liceo classico
"Garibaldi", la scuola bene della città indifferente a tutto,
soprattutto a sé stessa. Non sarebbe già questa, servita su un piatto d’argento
dalla tirannica cronaca siciliana, la trama di un romanzo che racconti la
storia mai raccontata della capitale della mafia, dove tutto si tiene, dove -
ancora una volta torna alla mente Benito Cereno di Melville - non si
capisce come riuscire a distinguere i marinai leali dagli ammutinati? La
memoria del cronista, viene dispiegata sulle mappe dell’intellettuale e così si
materializzano gli anni della guerra siciliana, il dominio della mafia, la sua
capacità a muoversi politicamente non nel senso di scegliere i politici
amici e sbarazzarsi dei nemici, ma di agire in modo da indirizzare gli
accadimenti della società e dell’economia. Incubando strategie che, partendo
dalla Sicilia, si sarebbero poi riproposte su scala globale. Il senso di questo
libro, ciò che ne fa molto di più di un libro che parla di mafia, è proprio
questo. E ha una dimostrazione pratica del teorema secondo il quale " In
Sicilia è la chiave di tutto": l’invenzione del traffico internazionale di
droga. Melati lo spiega ricorrendo a un luogo che forse solo pochi palermitani
colgono nel portato metaforico globale che incarna: villa Sperlinga, giardino
nella zona residenziale di Palermo che sul finire degli anni Settanta (per la
precisione dopo il sorgere del movimento del ’77, anche questo - guarda un po’
- cominciato in Sicilia e poi dilagato nel resto del Paese) diventa il
laboratorio economico sociale del grande affare del secolo che, ancora oggi,
muove una rilevantissima fetta dell’economia mondiale. Succede che, in
quegli anni, la mafia decide di prendere direttamente in mano il traffico di
eroina, impianta raffinerie in Sicilia e crea il mercato, proprio come farebbe
una qualsiasi multinazionale. A villa Sperlinga, dove si ritrovano i - fino ad
allora- pochi tossici e i " fricchettoni" del movimento sparisce il
" fumo", sostituito dall’eroina a bassissimo prezzo che Cosa nostra
ha deciso di vendere in grande stile. Un’operazione di dumping si
definisce in termini economici. Utile a distruggere una generazione che avrebbe
pericolosamente potuto pensare in maniera diversa e a costruire il grande
mercato della droga imperante ancora oggi.
La risposta alla domanda iniziale del libro ( è possibile cambiare il
finale de " Il giorno della civetta"?, è possibile, alla fine,
raccontare che la mafia ha perso?) è tutta qui. I grandi patrimoni narco
mafiosi costruiti negli anni Ottanta sono ancora in circolo ( i pentiti
non ne parlano e se i pentiti non parlano raramente gli inquirenti arrivano
all’obiettivo), il traffico internazionale di droga, inventato dalla mafia
siciliana, è più che mai ricco di capitali e i " paradisi fiscali"
che Giovanni Falcone chiedeva di abolire sono sempre più floridi e intoccati.
Magari è vero che Palermo non è più né mafiopoli, né Tombstone, ma è
altrettanto vero che il virus della "sicilianità" circola ancora per
il mondo. Al punto da dover rimandare l’appuntamento con il finale nuovo della
storia che Giovanni Falcone, uno di quelli che il finale nuovo aveva provato a
scriverlo sfidando mafiosi e antimafiosi che arrivarono a tacciarlo di "
intelligenza col nemico", auspicò quando disse: « La mafia non è
invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e
avrà una fine».
La Repubblica Palermo, 27 febbraio 2020
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