giovedì, febbraio 27, 2020

Ci vuole abilità. Com’è difficile lavorare e assistere un figlio disabile


di Patrizia Gariffo 
Insegno in una scuola primaria, titolare a Palermo, e da dieci anni chiedo il trasferimento per tornare nel mio comune, Favara, e assistere mio figlio, affetto da un gravissimo ritardo psicomotorio e deficit visivo e con legge 104 comma 3. La domanda viene sempre rigettata perché i posti disponibili vanno a chi ha una "104 personale", ottenuta pure sommando lievi patologie, o dai neo-immessi in ruolo. Così, ogni anno, sono costretta a scegliere tra due diritti: essere madre o lavorare.
Carmen Milia 
A patire la stessa situazione di Carmen ci sono Nadia, pure lei di Favara ma docente titolare a Milano e impossibilitata a tornare per assistere la sua bambina con una gravissima disabilità; Adriana, la cui domanda di trasferimento viene rigettata da otto anni e non può tornare a Ravanusa per occuparsi di sua figlia affetta da autismo e da una malattia genetica rara; Giovanna, docente titolare a Massa Carrara, che da sei anni vorrebbe rientrare ad Agrigento dove vivono i suoi due figli che hanno la distrofia muscolare di Duchenne; e altre ventuno insegnanti di Agrigento e provincia.
Queste mamme sono docenti con figli da assistere ai sensi della legge 104 articolo 3 comma 3, ma che non possono né tornare né avvicinarsi ai loro comuni di residenza perché sempre precedute da altri insegnanti che godono della legge 104 "personale", ottenuta anche sommando diverse patologie molto meno invalidanti di quelle di cui soffrono questi bambini che necessitano di assistenza continua, e da quelli appena immessi in ruolo cui per legge si riserva una quota di posti. «Da due anni lavoriamo su progetto nei comuni di residenza dei nostri figli grazie all’allora interessamento del ministero della Disabilità e di un dirigente del ministero dell’Istruzione. Dal 1° settembre, però, dovremo riprendere servizio nelle sedi in cui siamo titolari, a chilometri di distanza», spiega la signora Milia. Quest’ennesima stortura che colpisce le persone diversamente abili riguarda solo la provincia di Agrigento e un gruppo esiguo di mamme. E ciò, probabilmente, non agevola a trovare una soluzione concreta, poiché non c’è un serio interessamento da parte di chi avrebbe le competenze per risolvere il problema e non costringere queste donne a dover scegliere tra la cura dei loro figli e il diritto di avere un’identità professionale. «Vorremmo che qualcuno si impegnasse a trovare finalmente una soluzione definitiva che ci garantisca di continuare a lavorare e di farlo nei comuni dove risiedono i nostri figli. Loro hanno bisogno di noi e noi abbiamo bisogno anche di un lavoro, per mantenere il contatto col mondo esterno»: questo l’amaro appello di Carmen e delle sue colleghe che ogni anno, a settembre, sono protagoniste dello stesso triste copione.
La Repubblica Palermo, 27 febbraio 2020

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