di Patrizia Gariffo
Insegno in una scuola primaria, titolare a
Palermo, e da dieci anni chiedo il trasferimento per tornare nel mio comune,
Favara, e assistere mio figlio, affetto da un gravissimo ritardo psicomotorio e
deficit visivo e con legge 104 comma 3. La domanda viene sempre rigettata
perché i posti disponibili vanno a chi ha una "104 personale",
ottenuta pure sommando lievi patologie, o dai neo-immessi in ruolo. Così, ogni
anno, sono costretta a scegliere tra due diritti: essere madre o lavorare.
Carmen Milia
A patire la stessa situazione di Carmen
ci sono Nadia, pure lei di Favara ma docente titolare a Milano e
impossibilitata a tornare per assistere la sua bambina con una gravissima
disabilità; Adriana, la cui domanda di trasferimento viene rigettata da otto
anni e non può tornare a Ravanusa per occuparsi di sua figlia affetta da
autismo e da una malattia genetica rara; Giovanna, docente titolare a Massa
Carrara, che da sei anni vorrebbe rientrare ad Agrigento dove vivono i suoi due
figli che hanno la distrofia muscolare di Duchenne; e altre ventuno insegnanti
di Agrigento e provincia.
Queste mamme sono docenti con figli da assistere ai
sensi della legge 104 articolo 3 comma 3, ma che non possono né tornare né
avvicinarsi ai loro comuni di residenza perché sempre precedute da altri insegnanti
che godono della legge 104 "personale", ottenuta anche sommando
diverse patologie molto meno invalidanti di quelle di cui soffrono questi
bambini che necessitano di assistenza continua, e da quelli appena immessi in
ruolo cui per legge si riserva una quota di posti. «Da due anni lavoriamo su
progetto nei comuni di residenza dei nostri figli grazie all’allora
interessamento del ministero della Disabilità e di un dirigente del ministero
dell’Istruzione. Dal 1° settembre, però, dovremo riprendere servizio nelle sedi
in cui siamo titolari, a chilometri di distanza», spiega la signora Milia.
Quest’ennesima stortura che colpisce le persone diversamente abili riguarda
solo la provincia di Agrigento e un gruppo esiguo di mamme. E ciò,
probabilmente, non agevola a trovare una soluzione concreta, poiché non c’è un
serio interessamento da parte di chi avrebbe le competenze per risolvere il
problema e non costringere queste donne a dover scegliere tra la cura dei loro
figli e il diritto di avere un’identità professionale. «Vorremmo che qualcuno
si impegnasse a trovare finalmente una soluzione definitiva che ci garantisca
di continuare a lavorare e di farlo nei comuni dove risiedono i nostri figli.
Loro hanno bisogno di noi e noi abbiamo bisogno anche di un lavoro, per
mantenere il contatto col mondo esterno»: questo l’amaro appello di Carmen e
delle sue colleghe che ogni anno, a settembre, sono protagoniste dello stesso
triste copione.
La Repubblica Palermo, 27 febbraio 2020
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