di Salvo Palazzolo
«Ci vorrebbero cinque colpi per farla finita
definitivamente con tutto questo gruppo di Antoci, Manganare e gli altri». Così
parlava Filadelfio Favazzo, imprenditore ritenuto vicino al capomafia di
Tortorici, Sebastiano Bontempo Scavo detto "il Guappo". Nell’estate
del 2016, poche settimane dopo l’attentato all’allora presidente del Parco dei
Nebrodi Giuseppe Antoci, si sfogava con alcuni suoi amici, in un incontro al
bar. E un confidente dei carabinieri ascoltava.
Inizia così l’annotazione della Compagnia dei carabinieri di Santo Stefano
di Camastra, datata 23 settembre 2016, all’epoca subito inviata al Ros e alla
procura di Messina. «Nei giorni scorsi, una fonte fiduciaria contattava un
militare della stazione di San Fratello riferendo di una situazione di tensione
negli ambienti criminali del paese, determinata dal noto Favazzo». A parlare
era stato un confidente che già altre volte aveva fornito notizie importanti
agli investigatori dell’Arma, notizie sempre riscontrate. «Nell’ultimo periodo
— si legge nella relazione di servizio — Favazzo si era mostrato
particolarmente tracotante e in più di una circostanza veniva notato, in
esercizi e luoghi pubblici, intento a fomentare gli animi degli allevatori
pregiudicati locali». Le restrizioni imposte dal Protollo Antoci avevano fatto
perdere le staffe ai boss e ai loro fidati.
Favazzo detto Frareddu è definito dai carabinieri come
pluripregiudicato, nell’operazione "Mare Nostrum" era stato però
assolto dall’accusa di mafia, nell’indagine "Montagna" ha invece patteggiato
una condanna come imprenditore contiguo alla cosca dei Batanesi. Ecco cosa gli
dava fastidio, lo scrivono i carabinieri: «Favazzo, lamentando la gravità della
contingente situazione — caratterizzata da una restrizione nell’accesso ai
contributi e dall’incremento dei controlli — ne evidenziava la valenza dannosa
ed il pericolo di rovina per tutti loro».
Ed ecco quella frase, pronunciata in un bar, «davanti alcuni accoliti»,
come riferito dal confidente: «Ci vorrebbero cinque colpi per farla finita definitivamente
con tutto questo gruppo di Antoci, Manganare e gli altri». Manganare era
l’allora dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello.
Lo sfogo di Favazzo era davvero senza precedenti; i carabinieri
aggiungevano: «Questi discorsi, oltre che pericolosi — per il latente rischio
di far presa sugli interlocutori (per lo più rozzi e violenti) apparivano
inconsueti perché espressi senza adottare le cautele di riservatezza ambientale
e personale cui è solito, consentendo a chiunque di udirli e percepirli
chiaramente e distintamente ».
Antoci spiega così quelle parole: «L’annotazione del Ros non fa altro
che confermare il clima di odio che si respirava per la creazione del
protocollo di legalità che, come ha anche ben dimostrato l’ultima operazione della
Dda di Messina, dei Ros e della Guardia di finanza, ha stroncato gli affari
milionari della mafia». Nel settembre 2006, quell’annotazione fu inviata subito
ai pm Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, titolari dell’inchiesta sull’attentato:
venne specificato che le parole di Favazzo non indicavano «future azioni
criminali o alcun dettaglio utile a coglierne un’eventuale partecipazione
all’attentato del presidente del Parco dei Nebrodi», però restavano parole
significative, perché — scrivevano ancora i carabinieri — «finivano per creare
tensione e rischio di proselitismo in quella categoria di interlocutori».
Parole significative soprattutto perché arrivavano da «incrementati contatti
fra il pregiudicato e la criminalità organizzata di Tortorici, in seno alla
quale beneficia di uno speciale rapporto fiduciario con Sebastiano
Bontempo, da poco scarcerato ».
Bontempo è uno dei protagonisti dell’operazione della Dda di Messina che
nei giorni scorsi ha portato in carcere 94 persone svelando l’ultimo affare dei
boss: buttati fuori dai pascoli demaniali, grazie al Protocollo Antoci, i
mafiosi si erano inventati un altro tipo di occupazione delle terre per non
perdere i finanziamenti, quella virtuale. Grazie alle complicità di alcuni
dipendenti dei centri di assistenza agricola, segnavano come propri terreni di
Comuni, Regione o privati. Lo scopo dei boss era quello pronunciato con rabbia
in quell’estate 2016: «Farla finita definitivamente » con la stagione di
controlli.
«Il rancore dei boss è per me una medaglia — dice oggi Antoci — Adesso, i
fondi europei per l’agricoltura vadano agli agricoltori e agli allevatori
perbene, che sono la stragrande maggioranza in questo Paese».
La Repubblica Palermo, 19 genn 2020
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