Roberto Gualtieri |
di Francesco Manacorda e Roberto Petrini
ROMA «La logica di mercato e l’intervento dello Stato possono
coesistere perfettamente, proprio perché esistono i fallimenti di mercato nei
quali lo Stato non solo può, ma deve intervenire». Il ministro dell’Economia,
Roberto Gualtieri, ha ottenuto ieri l’ultimo voto di fiducia alla Camera sulla sua
legge di Bilancio. Ora guarda alla "fase due" dell’esecutivo, si
aspetta un governo di legislatura e soprattutto, dopo i numerosi interventi
pubblici nell’economia progettati o realizzati, espone il suo manifesto per la
sinistra in questi tempi difficili. Senza considerare tabù che lo Stato, quando
le circostanze lo richiedono, possa svolgere un ruolo anche di azionista.
Mettiamoli in fila, questi interventi: la partecipazione pubblica
nell’Ilva, il tentativo di agganciare l’Alitalia a un socio pubblico, il
salvataggio della Popolare di Bari...
«Sono di natura diversa. Sulla Popolare di Bari, ad esempio, interviene il
Fondo interbancario che è privato e noi ricapitalizziamo il Mediocredito
centrale perché possa concorrere a condizioni di mercato a un’operazione di
rilancio del sistema finanziario e creditizio del Mezzogiorno, aperta ad altri
soggetti privati».
In questa vicenda ritiene che ci siano responsabilità di Bankitalia?
Ha detto che dovrete «verificare».
«Siamo nell’Unione bancaria e c’è una vigilanza comune europea. Ho grande
fiducia nel lavoro di Bankitalia, anche alla luce della collaborazione che c’è
stata in queste ultime settimane per la vicenda Bari. L’operato di tutti noi è
sempre sottoposto al vaglio pubblico e sono fiducioso, come ha detto lo stesso
governatore Visco, che la stessa Bankitalia saprà verificare se siano stati
commessi eventuali errori».
Vedremo comunque lo Stato socio di Ilva e forse anche di Alitalia?
«Interverremo in un settore strategico per l’industria italiana come la
produzione di acciaio per favorire una transizione ambientale ed energetica che
renda l’Ilva un polo di eccellenza nel quadro del "Green New Deal"
europeo con alti livelli produttivi ed occupazionali e minore impatto
ambientale. Se il negoziato andrà a buon fine, il nostro intervento sarà
limitato: Mittal ci anticiperà tutti i canoni di affitto dell’impianto che
avrebbe dovuto pagare in futuro e noi trasformeremo questo credito in azioni
della nuova Ilva, che resterà un’azienda privata incardinata in un grande
gruppo internazionale».
E Alitalia? Anche qui si punta, o si puntava, sul socio pubblico Fs…
«L’obiettivo è il rilancio della compagnia nel quadro di una soluzione di
mercato in un confronto con gli operatori internazionali, che può prevedere
anche il coinvolgimento di Ferrovie per valorizzare l’intermodalità del
trasporto. Comunque spetta al nuovo commissario fare le scelte più opportune
per garantire il futuro della compagnia».
Ammesso che l’Europa accetti tutti questi interventi…
«È ovvio dire che dobbiamo stare nelle regole europee. Anche a Bruxelles,
comunque, c’è più attenzione sia ai temi al ruolo delle politiche pubbliche –
come dimostra prima il piano Juncker per gli investimenti e adesso il piano
"verde" della nuova Commissione – sia alla necessità di contemperare
le esigenze della concorrenza con quelle di favorire la crescita di
imprese che possano concorrere a livello globale».
Ma l’Italia può permettersi questi interventi con un debito così alto?
«Stato e mercato possono coesistere proprio per far funzionare meglio il
mercato, e d’altronde è quello che avviene in tutti i grandi paesi avanzati.
Non vogliamo sussidiare inefficienze ma, quando è necessario, promuovere gli investimenti
e l’innovazione nei settori strategici.
Da questo punto di vista la formula dell’azionariato misto pubblico-privato
ha dato buona prova di sé anche nel contesto delle privatizzazioni. Le più
importanti multinazionali italiane sono ancora oggi società a partecipazione
pubblica».
Sì, ma con il debito pubblico come la mettiamo?
«I vincoli delle finanze pubbliche ci rendono attenti e prudenti nella
selezione degli interventi, che devono sempre ponderare con cura benefici e
costi, compresi quelli di un mancato intervento».
Insomma, per lei lo Stato non deve stare solo in cabina di regia, ma anche
agire sul palcoscenico dell’economia?
«Servono senza dubbio politiche industriali per favorire lo sviluppo del
Paese. Sarebbe improprio considerare lo Stato quello che si accolla le perdite
quando un’impresa non può stare in piedi per ragioni strutturali, ma è
altrettanto datato un pensiero che affida allo Stato solo la funzione di fare
le regole. Siamo invece in una fase nuova – a livello non solo italiano, ma
europeo e globale - con sfide mai viste prima: quelle dell’innovazione
continua, delle tecnologie dirompenti e della sostenibilità ambientale e
sociale. E proprio per far fronte a queste sfide, in sintonia con quanto sta
facendo anche la nuova Commissione europea, serve un nuovo modello di politica
industriale che veda il concorso delle politiche pubbliche e degli attori
privati».
Dobbiamo dimenticarci le privatizzazioni, insomma?
«No. Ci siamo dati un obiettivo assai più contenuto del precedente governo,
ma intendiamo conseguirlo. Se da un lato ci sono settori e imprese che possono
trarre vantaggio dall’intervento pubblico, dall’altro ci sono invece quelle che
che possono lavorare meglio se aperte a soci privati. Ma non faremo
privatizzazioni per fare cassa anche perché le partecipate non sono solo
strategiche, ma danno anche ottimi dividendi al bilancio pubblico».
A questo proposito ritiene anche lei, come il ministro Fioramonti, che
l’Eni debba al più presto abbandonare le fonti di energia fossile?
«Eni è una società di eccellenza che giustamente persegue strategie di
sviluppo che coniugano il presidio del mercato dell’energia fossile con la
transizione energetica verso un futuro "low carbon"».
Lei è esponente del Pd. Parla spesso di sistema fiscale progressivo, di
sanità universale, meno toni "mercatisti" nei suoi discorsi. Sta
cambiando qu alcosa nella sinistra europea?
«Stiamo voltando pagina e stiamo cercando di aprire ad una nuova stagione.
Vogliamo concorrere a definire il profilo di una moderna sinistra europea di
governo. Non a caso parliamo di "Green New Deal", di nuovi modelli di
politiche pubbliche in mercati basati sulla concorrenza e di un tema
dimenticato negli Anni Novanta come la questione meridionale. Il riformismo
degli anni Venti di questo secolo deve avere al centro la sfida della
sostenibilità ambientale, dalla coesione sociale, dell’innovazione tecnologica,
della centralità della persona e deve costruire una grande alleanza che
coinvolga il mondo del lavoro, dell’impresa, le forze intellettuali e civili
per ascoltare la società e i suoi fermenti e unire il Paese in una visione
condivisa del futuro. Tutto ciò richiede grande impegno, ma anche quella
sobrietà nell’esercizio di governo a cui ci ha giustamente richiamato il
presidente Conte».
In che senso?
«Guardate l’ottimo lavoro che sta facendo Luciana Lamorgese al ministero
degli Interni paragonato ai continui allarmi ansiogeni sui flussi migratori e
su ipotetici problemi di ordine pubblico lanciati da chi prima occupava quel
posto. Ora si lavora seriamente e senza alzare la voce per spaventare
l’opinione pubblica e i risultati si vedono».
Concessioni autostradali: state facendo un dietrofront come vi imputa
Autostrade per l’Italia?
«L’occasione nasce dalla scadenza di alcune concessionarie. Per questi casi
occorre fornire il paracadute di un passaggio della concessione all’Anas. Ma
questo non c’entra nulla con il caso del Ponte Morandi».
Non negherà che la revisione delle concessioni può colpire a fondo
Autostrade e il gruppo Atlantia dei Benetton…
«Abbiamo ereditato dal passato un regime delle concessioni squilibrato,
imposto per legge dodici anni fa in deroga ad ogni procedura amministrativa, e
che assicura ad alcuni concessionari condizioni di assoluto privilegio senza
fornire sufficienti garanzie su investimenti e manutenzione. È evidente che
questo non è più sostenibile. Peraltro oggi c’è un’Autorità indipendente dei
Trasporti, che regola il mercato e determina le tariffe a tutela della
concorrenza e dei consumatori. I concessionari non possono non applicare le sue
delibere».
Il governo che può fare?
«L’obiettivo è riallineare la disciplina delle concessioni, oggi
frammentata in tanti regimi diversi, al codice civile e al codice degli
appalti. Ricondurre tutto a un’unica disciplina generale, affidata ad un
regolatore indipendente, favorisce la certezza del diritto e rende il mercato
aperto alla concorrenza e contendibile. È una linea coerente con l’accordo di
programma del governo».
La manovra. Se dovesse riassumerla in poche parole, ora che il tour de
force fuori e dentro la maggioranza è terminato?
«Oltre a disattivare completamente l’aumento dell’Iva, che è il
compito principale che ci era stato affidato, riduciamo le tasse sul lavoro
aumentando gli stipendi netti in busta paga, rilanciamo gli investimenti con un
focus speciale su ambiente e occupazione, sosteniamo il welfare a partire da
sanità e famiglia con gli asili nido».
E l’evasione? C’è una frenata rispetto alle premesse iniziali?
«Niente affatto. Abbiamo varato misure molto incisive di
contrasto all’evasione fiscale, che vanno dagli abusi nella
somministrazione di manodopera, alle indebite compensazioni, dalle frodi su
carburanti all’incrocio dei dati nel rispetto della privacy fino agli incentivi
per ridurre l’uso del contante. Il sistema di interscambio gestito da Sogei ha
ricevuto ben due miliardi di fatture elettroniche, è un dato che abbiamo
rilevato proprio oggi. Quando è arrivata questa innovazione tanti paventavano
il disastro, invece si sta rivelando uno strumento di efficienza capace di
ridurre al minimo gli spazi di evasione. Dalle nuove misure, che hanno questa
stessa natura strutturale, ci aspettiamo anche più dei tre miliardi previsti
nella legge di Bilancio».
Quanti in più?
«Preferiamo essere prudenti nelle stime ed essere magari smentiti in
positivo dai fatti, che non il contrario. Per questo non do cifre».
L’economia italiana è piatta e avrebbe forse bisogno di uno choc positivo.
Sul cuneo fiscale che cosa dobbiamo aspettarci?
«Il decreto attuativo della prima tranche di riduzione delle tasse, con il
taglio del cuneo fiscale, sarà varato entro gennaio dopo un dialogo con le
forze sociali e produttive».
E chi ne beneficerà?
«Io penso che la platea dovrebbe essere più larga di quella dei beneficiari
degli 80 euro, andando quindi oltre i 26 mila euro di reddito lordo, per dare
un beneficio oltre ai ceti bassi anche a quelli medi. Ma il nostro obiettivo è
quello di varare una completa riforma fiscale che potrà partire dal 2021,
tenendo presente il principio della progressività delle imposte».
Ma come si fa, oltre che con la politica fiscale, a cercare di aumentare la
crescita e l’occupazione?
«Il nostro principale problema è la produttività stagnante da ormai molti
anni. Per farla tornare a crescere occorrono investimenti in infrastrutture ma
anche e sempre più in capitale umano, innovazione, una pubblica amministrazione
efficiente.
Servono anche politiche attive del lavoro e su questo fronte il Reddito di
cittadinanza - che sta funzionando bene come strumento di contrasto alla
povertà, ampliando e migliorando quello che era il Rei, e sta dando risultati
anche sul fronte dei consumi lascia ancora a desiderare. È là che dobbiamo
muoverci, con un obiettivo che definisco "Quota 60"».
Ossia?
«Storicamente in Italia, anche quando il tasso di disoccupazione è andato
sotto il 10%, il tasso di occupazione è rimasto basso, specie per il basso
tasso di occupazione femminile. Oggi siamo al 59,2% e vogliamo arrivare nel
2020 oltre quota 60% e poi raggiungere la media europea».
Resta aperta la questione dell’Iva. Lei avrebbe voluto ritoccare alcune
aliquote quest’anno, ma la maggioranza si è opposta. Che cosa accadrà nel 2020?
«Noi vogliamo rendere il fisco più equo e più semplice. Per raggiungere
questo obiettivo è necessaria una revisione complessiva del sistema fiscale che
tenga in considerazione diverse imposte al fine di creare un sistema organico e
armonico, che risulti più leggero per i redditi medi e bassi. In questo quadro
puntiamo anche all’eliminazione completa delle rimanenti clausole di
salvaguardia».
C’è qualcosa che avrebbe voluto inserire nella manovra e non è riuscito a fare?
«Sì, abbiamo inserito circa due miliardi aggiuntivi per scuola, università
e ricerca. Avrei voluto destinare ancora più risorse a questi settori
fondamentali. L’impegno per la prossima manovra è di rafforzare gli interventi in questo
comparto».
La Repubblica, 24 dic 2019
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