Un'immagine della strage di viale Lazio |
di Salvo Palazzolo
Cinquant’anni dopo, i destini incrociati di tre
uomini: uno dei sopravvissuti, figlio del costruttore Moncada, vive ora nella
casa dell’agguato, ma è chiuso nel suo silenzio. I figli di due vittime
chiedono verità sull’eccidio
Dentro a un vicolo, al numero 108 di viale
Lazio, continuano a rincorrersi i destini di tre uomini. Che non si sono mai
incontrati. Ma da cinquant’anni, ormai, le loro storie ruotano attorno a quel
budello, da quando la sera del 10 dicembre 1969 un commando di killer mafiosi
travestiti da poliziotti fece irruzione negli uffici del costruttore Girolamo
Moncada, per uccidere il boss Michele Cavataio, padrino in ascesa che dava
fastidio a molti in Cosa nostra.
Angelo, il figlio diciannovenne del costruttore, rimase vivo per miracolo:
si finse morto, sotto una scrivania, mentre Bernardo Provenzano finiva
Cavataio. I sicari uccisero anche l’imprenditore Francesco Tumminello: quella
sera, il capitano Giuseppe Russo prese sotto braccio suo figlio Giorgio e gli
chiese come era stato possibile che suo padre, capocantiere dei Moncada, fosse
diventato nel giro di pochi mesi un influente costruttore. Il giovane, che
aveva 24 anni, rimase in silenzio.
Piangeva, invece, a dirotto il piccolo Ferdinando Domè, 10 anni, il figlio
di Giovanni, suo padre era un onesto operaio dei Moncada, quella sera era
arrivato di corsa negli uffici della ditta per chiedere un anticipo sugli
arretrati. Ma ebbe la sfortuna di trovarsi davanti ai killer. In una manciata
di minuti, poco dopo le 19, rimasero per terra cinque persone: non ebbe scampo
anche il ragioniere dei Moncada, Salvatore Bevilacqua; e uno dei killer,
Calogero Bagarella, ucciso da Cavataio. L’altro figlio di Moncada, Filippo,
riuscì invece a nascondersi in uno sgabuzzino.
Quella strage segnò Palermo, in un drammatico prima e dopo. Mentre il
cemento della speculazione continuava ad ingoiare la città e i mafiosi
frequentavano segreterie politiche, aziende e salotti. Nel 2009, le
dichiarazioni di uno dei killer di viale Lazio, Gaetano Grado, al pubblico
ministero Michele Prestipino, hanno portato a due condanne all’ergastolo,
per Bernardo Provenzano e Totò Riina: prima della strage erano solo dei giovani
sicari al servizio di una maggioranza che voleva sbarazzarsi di un ingombrante
Cavataio, boss dell’Acquasanta; il giorno dopo, iniziarono la loro scalata.
Cinquant’anni dopo, questa è una storia in parte ancora da scrivere. Perché
il tesoro di Cavataio, uno dei mafiosi più influenti di Palermo, sembra essere
scomparso nel nulla da quel giorno di dicembre. E, intanto, i destini di tre
uomini continuano ancora a intrecciarsi nel vicolo al numero civico 108 di
viale Lazio.
Angelo Moncada è tornato a vivere proprio lì, l’ufficio della strage è oggi
un appartamento, il soggiorno è dove i killer entrarono in azione. Qualche
tempo fa, il figlio dell’imprenditore ha pubblicato su Facebook la foto del cadavere
di Cavataio e un commento: «Tra le due scrivanie» . Lui era lì. Ma non ha mai
aggiunto altro, si è chiuso in un silenzio profondo, né si è costituito
parte civile nel processo.
Si era invece costituito in aula Giorgio Tumminello. Quella mattina, prima
che iniziasse la prima udienza, ci raccontò della sua fuga da Palermo, con la
madre e i quattro fratelli: «Dopo la strage eravamo terrorizzati» . Ci
raccontò soprattutto perché era tornato: «Voglio trovare la verità su quel
fiume di soldi della speculazione edilizia che travolse mio padre e invece ha
arricchito tante persone. Lui era un prestanome, aveva delle proprietà anche a
New York, e dopo la sua morte tutto è sparito» . Domanda pesante quella che
Tumminello affidò in un’intervista a Repubblica: «Voglio sapere chi
si è impossessato di quelle ricchezze, anche se diranno che sono un pazzo, o un
morto che cammina». Due mesi dopo, ritirò la costituzione di parte civile e
scomparve da Palermo.
Al processo, rimase solo Ferdinando Domè con i suoi fratelli. Anche lui era
andato via dalla Sicilia dopo la strage. «Assalito dalla vergogna – racconta –
i giornali dicevano che pure mio padre era un mafioso. E per trentacinque anni
ho vissuto a Torino, ho lavorato in un’azienda che poi è fallita». Un giorno,
Ferdinando è tornato nel vicolo. «Ero insieme ai ragazzi delle scuole che
partecipano al progetto "Se vuoi", organizzato da alcuni poliziotti.
Mi ritrovai a raccontare la storia della mia famiglia, all’inizio fu doloroso,
poi poco a poco è stata una liberazione. E non ho più smesso di tornare nel
vicolo» . Anche oggi Ferdinando e i suoi fratelli saranno in viale Lazio, alle
17.30, con studenti e associazioni. Per ricordare la strage di cinquant’anni
fa. «Dobbiamo continuare a fare domande», dice.
Una volta, Ferdinando incontrò Angelo, nel vicolo. Lo fermò, gli chiese:
«Ma perché a tutti quelli che erano per terra diedero il colpo di grazia e a te
no?» . Moncada farfugliò qualcosa. «Sono stato fortunato» , sussurrò. E
tornò nel vicolo.
La Repubblica Palermo, 10 dicembre 2019
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