di PIERO COLAPRICO
MILANO — Ci sono persone che hanno inciso nel loro mestiere e l’hanno
cambiato. Ilda Boccassini, pubblico ministero e coordinatrice di indagini di
alto livello, è tra queste. Da oggi è in pensione. E con lei sembra andarsene
un’epoca storica. Facile — per chi non la conosce e per chi s’è fatto un’idea a
distanza — parlare o sparlare della «dottoressa», come i suoi l’hanno sempre
chiamata. C’è chi la rispetta e la ammira, chi non la sopporta. Più difficile
«narrarla» per i pochi che hanno seguito nei decenni i risultati, il metodo di
lavoro, il suo «non allineamento» alle correnti della magistratura. La carriera
di Ilda Boccassini è costellata di «prime volte», nel senso che è arrivata con
le inchieste dove altri non ce l’hanno fatta. A Milano si diceva che «non
c’è la mafia», ma alla fine degli anni Ottanta, lavorando con il capitano
Ultimo, sconfigge un intero clan di Cosa nostra. Quando nel maggio ’92 viene
ammazzato Giovanni Falcone, se la prende con chi ne criticava le scelte di
politica giudiziaria.
Va volontaria in Sicilia, a vivere
"bunkerizzata". Lavora sulle stragi mafiose e avvisa (inascoltata) i
colleghi siciliani che stanno dando credito a un pentito fasullo. Quando torna
a Milano, lo fa in pace. Ha la stima incondizionata di Francesco Saverio
Borrelli, che ai tempi l’aveva «sgridata», adesso la spinge a ricoprire il
ruolo che era stato di Antonio Di Pietro nelle inchieste anticorruzione. Entra
nel pool Mani Pulite: e dimostra come l’avvocato Cesare Previti, per conto di
Silvio Berlusconi, potesse «comprare» le sentenze della Cassazione. Dodici anni
fa, nel 2007, gli ultimi brigatisti rossi, che hanno alle spalle alcuni
omicidi, vengono catturati dopo le sue indagini con l’antiterrorismo. Poi
dimostra che a casa del presidente del Consiglio — sempre Berlusconi, ma
dipende dai suoi comportamenti questo susseguirsi di indagini, non certo dai
magistrati — non si tenevano «cene eleganti», ma ci si regolava negli inviti
notturni grazie a un «sistema prostitutivo». Anche con le sue
indagini sulla ’ndrangheta assistiamo a due novità assolute: il voto dei
padrini del Nord per l’elezione del loro rappresentante; e un giuramento di
affiliazione in diretta video, in mezzo alla campagna lombarda, dove i mafiosi
ritiravano i cellulari e non c’era corrente elettrica. Ancora oggi i criminali
si chiedono come abbia fatto.
Aveva in fondo un legittimo desiderio di carriera: diventare procuratore
capo di Milano. Si augurava che il curriculum l’aiutasse, il Csm non l’ha
considerata tra i papabili. Oggi «se ne va» dunque dal quarto piano del palazzo
di giustizia di Milano un numero uno. Salutando poche persone, mentre gli
ultimi mesi sono trascorsi lenti, desolati e senza nuovi incarichi. E se ne va
a settant’anni, come prevede la legge, senza che nessun rappresentante dello
Stato abbia pensato a come non sprecare un talento come il suo. È il destino
che capita non di rado in Italia alle persone indipendenti. «La dottoressa » in
qualche modo è un’integralista della legalità, una che s’è sempre ispirata non
solo al lavoro, ma alla dignità e al coraggio estremo di Giovanni Falcone.
Conosce tutti e, quando alza il telefono, i detective l’ascoltano. In questi
ultimi mesi, quel telefono ha squillato meno, molto meno. E i suoi confidavano:
«Che spreco».
La Repubblica, 7 dic 2019
Nessun commento:
Posta un commento