Salvatore Paternostro |
Ripropongo una pagina speciale pubblicata su "La Sicilia" del 14 febbraio 2010, dove racconto di uno dei 600 mila militari italiani internati, giovani poco più che ventenni che preferirono finire in un campo di concentramento, piuttosto che combattere nell'esercito nazista o nella fascista repubblica di Salò. Racconto di Salvatore
Paternostro, mio padre, che fu uno dei tanti siciliani, che, dopo l’armistizio, fu
catturato dai tedeschi in Albania e internato in un campo di concentramento della
ex Jugoslavia. Fu liberato dagli americani dopo 20 mesi di prigionia
Come Gioacchino Virga, il giovanissimo
soldato palermitano che dopo l’8 settembre 1943 morì di fame e di freddo in uno
«Stalag» tedesco (ne abbiamo scritto su «La Sicilia» del 27 settembre 2009), tanti
altri militari italiani furono protagonisti di una pagina di storia quasi interamente
rimossa nel dopoguerra, sia in sede di memoria collettiva che in sede di
ricostruzione e analisi storiografica. Si tratta dei 650.000 «Internati
Militari Italiani» (I.M.I.), che dopo l’armistizio rifiutarono di continuare a
combattere la guerra al fianco dei tedeschi e non accettarono di arruolarsi
nella Repubblica Sociale Italiana, preferendo andare incontro a circa venti
mesi di internamento e di lavoro forzato nei lager nazisti. Salvatore
Paternostro, mio padre, scomparso nel 1999, fu uno di questi.
«Dopo l’8
settembre, fummo disarmati dai tedeschi, fatti prigionieri e sbattuti in un
campo di concentramento nella ex Jugoslavia, dove rimanemmo fino al 1945,
quando ci liberarono gli americani», raccontava a me e a mio fratello. E ogni
volta aggiungeva nuovi particolari, come se li tirasse fuori, faticosamente,
dallo scrigno della memoria, che non voleva farli uscire. Si trattava di
ricordi tristi e dolorosi, che avevano segnato la vita di questo giovane
contadino semi-analfabeta, che era riuscito appena a completare la seconda
elementare. Uno come tanti, nella Sicilia di allora. Uno delle tante migliaia
di siciliani chiamati a combattere la guerra voluta dal fascismo.
Nato nel 1916, aveva fatto il servizio
militare di leva a Vercelli, in Piemonte, dal 16 maggio 1937 al 22 agosto 1938.
Poi era stato richiamato una prima volta alle armi nel giugno del 1940, con
destinazione Trapani. Ma a gennaio del ’42 venne congedato, perché aveva altri
due fratelli (Leoluca e Mariano) sul fronte di guerra. Già nel ’42 le sorti del
conflitto bellico cominciarono a non andare bene per l’Italia, che fu costretta
a richiamare alle armi altre migliaia di soldati, tra cui mio padre, che
stavolta venne destinato in Albania. «Per diversi mesi feci parte del
contingente che scortava la colonna di automezzi addetti al trasporto di armi e
viveri. Ogni tanto venivamo attaccati dai "ribelli", che ci sparavano
addosso dagli alberi, senza farsi vedere. Ricordo che con noi c’era un giovane
capitano, al quale non piaceva che si chiamassero "ribelli" gli albanesi
che ci attaccavano. Lui preferiva chiamarli "partigiani". Allora non
capivo. Avrei capito dopo. Qualche settimana prima dell’8 settembre, infatti, una
sera, questo capitano mi salutò quasi con le lacrime agli occhi, come se
dovesse partire per un lungo viaggio. Il giorno dopo seppi che era passato a combattere
a fianco dei "ribelli". Il nostro contingente era composto da circa tremila
soldati, ma dopo l’8 settembre fummo disarmati ed arrestati da appena trecento
tedeschi. Dopo la "fuga" del Re, i nostri comandanti non avevano ordini
precisi, erano confusi, non sapevano se farci combattere o arrendere. I tedeschi,
invece, le idee le avevano chiare.
Ci disarmarono, ci fecero salire sui treni
e ci internarono nei lager». Furono 20 mesi terribili quelli passati nello
Stalag tedesco. «Non pensavo di sopravvivere. Ero convinto che sarei morto di
fame, di freddo oppure ammazzato senza un vero motivo dalle guardie tedesche, che
ci odiavano, ci consideravano traditori. Ne vidi morire tanti miei compagni di
prigionia! Di fame, di freddo, di fatica o uccisi dai tedeschi». Mentre mio
padre raccontava, a me e a mio fratello, allora molto piccoli, ci sembrava di
vivere un film d’avventura. Un giorno, per farci capire cosa significasse
davvero avere fame, ci raccontò che un suo compagno di prigionia, un emiliano,
catturato un topolino, lo aveva spellato, lo aveva messo a riscaldare sulla
grande stufa a legna e stava cominciando a mangiarlo. «Fabris, dammene un poco
anche a me!», gli disse un altro prigioniero. E lui, col sangue agli occhi:
«Porca boia, se non te ne vai, mi magno pure te!». «Una volta - ci raccontò
ancora - una guardia tedesca mi diede un secchio pieno di patate bollite per
portarle da mangiare al cane. Ma io, voltato l’angolo, le mangiai una dietro
l’altra, in pochi secondi…». «Le bucce gliele hai tolte?", gli chiese ingenuamente
mio fratello. E mio padre, con un sorriso amaro: «Perché le patate avevano
bucce?».
Dopo
l’8 settembre, soldati italiani allo sbando
Lo
status di «Italiani Militari Internati» fu adottato da Hitler come crudele
stratagemma
Già dall’1 agosto 1943 i tedeschi
avevano messo a punto un piano segreto «per far fronte all’eventuale uscita italiana
dalla guerra, denominato Achse, che prevedeva di abbandonare le regioni
meridionali della penisola e concentrare la resistenza all’avanzata alleata lungo
gli Appennini, nonché di disarmare e catturare rapidamente le forze armate
dell’ex alleato, in patria e all’estero, per impiegare il maggior numero possibile
di prigionieri come forza lavoro», scrivono Mario Avagliano e Marco Palmieri nel
saggio «Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania. Dati,
fatti e considerazioni (1943-1945)», pubblicato dall’Istituto "Galante
Oliva". In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari
italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto
le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o
grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti
810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000
nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle
isole greche alla terraferma e 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie
Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con
i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima
ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa
710.000 militari italiani con lo status di IMI e 20.000 con quello di prigionieri
di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono
disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o
come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000
militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono
rinchiusi in numerosi campi di prigionia in Germania e nei territori occupati. Come
hanno rilevato gli storici tedeschi Gerhard Schreiber e Gabriele Hammermann nelle
loro fondamentali opere sugli IMI, vi fu una particolare efferatezza dei
soldati tedeschi nei confronti degli ex alleati e molti degli ordini emanati da
Hitler e dai vertici della Wehrmacht ebbero un vero e proprio carattere
criminale. Lo stesso status di Imi, mai utilizzato prima di allora, fu adottato
su decisione di Hitler il 20 settembre 1943 e fu un crudele stratagemma per sottrarre
gli italiani alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929 valida per i
«prigionieri di guerra» e per costringerli al lavoro manuale. All’interno dei
lager i reclusi conducevano una vita spaventosa a causa della fame, del freddo,
dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’abbrutimento
fisico e morale derivante dalla prigionia. Particolarmente duro era il momento
dell’appello, di norma due volte al giorno, spesso senza esonero per gli
ammalati.
Nel 1943, il soldato Salvatore
Paternostro da Corleone aveva 27 anni ed era nel pieno delle sue forze fisiche.
«Ma, nell’aprile del ’45, dopo circa 20 mesi di prigionia, quando gli americani
ci liberarono, pesavo appena 35 chili», raccontava. «I soldati americani – ricordava
– si comportarono molto bene con noi. Tra loro ce n’erano diversi di origine
siciliana. Uno mi portò in cucina ed io, alla vista di tutto quel ben di dio, non
sapevo cosa mangiare prima. Per tanto tempo mi sono sentito un sopravvissuto e
spesso mi chiedevo come possono gli uomini diventare così feroci tra loro».
(d.p.)
(d.p.) Ma cosa spinse circa 650.000 militari
ad andare incontro consapevolmente ad un destino tragico, rifiutando l’offerta
di libertà legata all’obbligo di indossare la divisa tedesca o della repubblica
fascista? Le motivazioni furono varie. In molti casi esse non risposero inizialmente
ad una scelta politica antifascista, ma piuttosto alla stanchezza della guerra,
alla sfiducia, alla paura, ai tradizionali sentimenti antitedeschi o alla
convinzione che il conflitto sarebbe presto finito con la vittoria degli
angloamericani.
«In effetti - raccontava mio padre -
io e tanti altri miei compagni di prigionia non facemmo una scelta consapevole.
Ma di combattere per i tedeschi davvero non ne avevamo voglia…». Tra gli
ufficiali, però, non mancarono motivazioni ideali, come la fedeltà al giuramento
al re e la ripulsa nei confronti del fascismo considerato responsabile di
quella situazione. Il dramma degli IMI fu anche psicologico, perché era
difficile resistere alle sirene dell’arruolamento in quelle condizioni
caratterizzate dalla fame, dalle violenze e dal disprezzo della popolazione
civile che li additava come "traditori" e "porci badogliani".
Il "no" all’adesione,
inoltre, non fu una scelta facile, anche perché fu pronunciato da una
generazione di italiani che per venti anni era stata educata al "credere,
obbedire e combattere" e inquadrata nelle formazioni fasciste fin da
bambini.
In questo clima avvelenato i propagandisti
tedeschi e della RSI proponevano continuamente di aderire, in particolare agli
ufficiali, per riconquistare la libertà e poter tornare in Patria alle proprie famiglie.
In realtà la loro adesione era necessaria sia per ricostituire l’esercito della
RSI, sia per ridare un qualche prestigio agli occhi dell’opinione pubblica
italiana alla causa nazi-fascista. A posteriori, quindi, non si può non
riconoscere il rilievo di autentica Resistenza che quella scelta di massa
assunse, fornendo un contributo concreto al crollo del nazifascismo e al
successo della guerra di liberazione italiana ed europea sul piano militare,
politico e culturale.
La Sicilia, 14 febbraio 2010
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