di Francesco Merlo
Le sardine fanno paura a Salvini perché sono la sinistra che
finalmente non fa paura.
Ed è emozionante il contagio, da Bologna a Palermo, di questo dolce stil
novo di piazza che disorienta, e non solo Salvini, proprio perché non minaccia
scontri e barricate. Le sardine spaventano Salvini perché non fanno spavento, non gridano
«Salvini carogna/ritorna nella fogna». Non lanciano uova e scaracchi e non nascondono dentro di sè i black block
che, con il cappuccio calato sul viso, sono stati i raggi gamma, il nutrimento
che ha contribuito a trasformare il rustico e ruvido epigono del nativismo
razzista di Bossi e Maroni nell’incredibile Hulk della destra italiana.
Piccole e maltrattate in cucina, dove mia nonna che adorava le acciughe le
destinava al gatto o le gettava nell’immondizia, le sardine in mare, e ora
anche in piazza, avanzano invece compatte, solidali e unite, che sono i tre
aggettivi di cui va in cerca la sinistra perché sono l’anima smarrita dei suoi
valori. E stordiscono il predatore perché tutte insieme diventano un organismo
solo, "il banco", più grande di una balena. E infatti i pescatori,
già ai tempi di Aristotele, raccontavano la meraviglia delle albe, quando le
sardine luccicando si aprono a ventaglio, e gli incanti lunari in cui si
addensano e le loro ombre ingigantiscono. Ma le sardine non hanno altre armi
che il numero e i sensibilissimi sensori che, studiati dai neurobiologi,
somigliano sia alla coscienza collettiva di Marx sia ai radar e ai sonar che
permisero a Churchill di respingere l’invasione nazista: «We shall never
surrender». "Noi non ci arrenderemo mai".
E intonano Bella ciao , che è il canto laico della liberazione e
della concordia repubblicana, con la compostezza dei coristi dei college di
Cambridge. Nessun professore comunista li dirige quando mixano "e ho
trovato l’invasor" al silenzio, che in piazza non è mancanza di suoni, ma
assenza di slogan. Ed è davvero una novità la massa silenziosa, tutti per strada
senza fare adunata, anche quelli che non amano la folla,"stipati come
sardine", stretti stretti senza mai scontrarsi, vicinissimi ma senza
toccarsi, come i legni nel camino di Alessandro Manzoni, per dar fuoco al nuovo
bisogno italiano di opposizione e di saggezza, di protesta e di non violenza,
di solidarietà "sotto l’ombra di un bel fior": un fiore di montagna
come educazione civica, e le sardine di mare come l’universo perfetto che si
difende senza aggredire e usa gli ombrelli solo come ripari e mai come bastoni.
E difatti in pochi giorni le sardine hanno realizzato quello che a nessun
altro era riuscito in tutti questi anni in cui la sinistra è stata a rischio di
estinzione. Anche la rete e i social hanno perso la bava della lapidazione e la
piazza, in un certo senso, si è organizzata da sola, senza neppure gli
artisti intellettuali dei girotondi, i professori e i registi che sono ormai
anche loro segnati dall’aggressività biochimica, creatori di cattivi pensieri.
Le sardine sono arrivate via Facebook, rapide come la necessità e l’istinto, e
infatti non hanno - ancora? - leader proprio come i ragazzi del clima, Fridays
for future, che hanno inventato la piazza che non è più la piazza dove "si
scende", non è più la piazza dello scontro, la piazza-tribunale del popolo,
la piazza-plotone della demagogia. E le sardine di mare sono anche l’epopea
della specie e dunque della collettività che protegge l’individuo.
E infatti Salvini, che sui social pubblica la foto di un gatto che mangia
la sarda ("che cosa c’è di più bello?") è in realtà atterrito dal
numero: "Ci sono più sarde che gatti" recita una delle tante
barzellette dell’Europa orientale sulle sardine. Come il predatore predato,
raccontato dallo storico dell’Australia Robert Hughes ("La filosofia delle
sardine" è la stramba traduzione del suo libro sulla pesca "A jerk on
one end"), Salvini è sconvolto dal "banco", dall’esercito senza
armi. Perciò ancora cerca i vecchi compari che riconosceva suoi eguali e
contrari. E sta provando a scalmanare le sardine. Le reinventa minacciose, dice
che una sardina gli ha promesso una pallottola, passa a setaccio i social per
scovare la gaglioffa.
È sempre stato bravo ad eccitare la claque fanatica che da Marsala
a Torino, da Bari a Bologna gli ha dato vita promettendogli la morte e
soprattutto gli ha permesso di recitare la parte del politico imbavagliato, del
liberale che i pirati e gli estremisti di sinistra non fanno neppure parlare. E
infatti a Modena, quando ha visto tutti quegli ombrelli, si è chiuso in un
teatro sperando che i soliti squinternati della violenza venissero a stanarlo.
Da cronista lo ricordo bene su un palco di Massa, quando si compiaceva e
gongolava perché era riuscito a provocare la reazione violenta degli sbandati
dei centri sociali e degli anarchici che infiltravano tra i contestatori non
professionisti i loro compagni più nerboruti. Nel lento successo di questo
gabbamondo estremista c’è anche questo, che gli eredi della contestazione di
massa, della disobbedienza politica, della sinistra di strada, estremisti ma
pur sempre raffinati e colti, lo hanno trattato come i no global trattavano le
multinazionali, come gli indiani metropolitani trattavano l’Amerika, come la
Pantera trattò la Dc. Salvini non tollera che a contestarlo in piazza non siano
più quegli antagonisti, quei ribelli, quei rivoluzionari che trasformavano i
suoi stolti comizi in eventi, con auto blindate, fumo, sirene, manganelli,
elicotteri che volavano basso… In mezzo alle sardine non si muove più come un
Supereroe. E il viso lo rivela più delle parole. Non può più raccontare «ho
preso persino uno sputo in faccia » come gli sentii dire con il tono spavaldo e
il ghigno soddisfatto di chi, allora, stava vincendo alla lotteria della
politica.
Il fascino e la forza delle sardine è "La comunità che viene"
(Bollati Boringhieri) del filosofo Giorgio Agamben, la comunità senza aggettivi
e senza capi, una forza non più (non ancora?) affidata al vento astrofisico di
una bandiera, ai colori di un maglia, alle pietre da lanciare, a un dio, a un
imam, a un partito, a una piattaforma su Internet, a un comico spernacchiatore.
Ma solo al più povero dei pesci, che nella pasta viene seppellito sotto mille
sapori di terra, dal finocchietto selvatico alla mandorla all’uvetta…, e in
mare diventa invece colonia dove tutti si moltiplicano, ciascuno seguendo la
propria personale corsa verso l’insieme. E nel "banco", che vince
sempre come al casinò, ciascuna sardina ha lo stesso pensiero, che da Bologna a
Palermo ora si legge come un’insegna luminosa, un pensiero che è bisogno di
sinistra, bisogno di "fare il pallone" come i pesci d’oro di De André
che luccicano perché sono stelle e tutti le vorrebbero pescare.
La Repubblica, 20 novembre 2019
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