Paulo Paulino, 34 anni, della
tribù Guajajara Due giorni fa è caduto
in un’imboscata nel Nordest del Brasile |
di Daniele Mastrogiacomo
«Erano andati a caccia. Qui da noi, in piena Amazzonia, ci procuriamo da
mangiare così. Niente pistole e fucili. Frecce, una lancia e il machete per
aprirci la strada nella giungla. Lo faceva per la sua famiglia. Una giovane
moglie e un figlio che è già un ragazzo. Con Paulo c’era anche Laércio. È il
suo vice, lo accompagnava sempre. Sono caduti in un’imboscata. Forse li stavano
seguendo, all’improvviso sono apparsi. In cinque, dicono. Hanno esploso subito
due colpi: hanno centrato in pieno Paulo, Laércio è riuscito a fuggire. Lo
hanno inseguito sparando ancora. È stato raggiunto al braccio e alla schiena.
L’ho visto, è al centro medico. Mi ha raccontato tutto. Piange e si dispera; è
forte, si riprenderà».
La voce di Carlos Tavossos arriva a tratti. Interpretare
il suo brasiliano di Maranhão non è facile. Pochi minuti per confermare la
dinamica dell’ultimo omicidio nel cuore della foresta amazzonica. In tredici
anni, dal 2003 al 2016, ultima rilevazione ufficiale, ce ne sono stati 1.009.
Tutti indigeni delle 240 tribù cui appartengono 900 mila persone. Ma è qui,
nello stato più a nord del Brasile, nella comunità di Araribóia, che si
concentra la strage. Un Eden che attira le multinazionali alla frenetica
ricerca di minerali che servono al mondo; che rendono più moderna, comoda e
facile la nostra esistenza.
Il lavoro sporco è affidato a chi apre la strada tra la giungla. A chi
abbatte gli alberi, cerca oro e altri metalli con il mercurio che brucia la
vegetazione e inquina le falde acquifere. A chi conquista altra terra per le
coltivazioni intensive con il fuoco degli incendi. A chi impone la sua legge
perché il narcotraffico è un business che non aspetta, ha bisogno di trovare
altre vie di trasporto, deve soddisfare la domanda che arriva dal nord più
ricco e disposto a pagare bene. Carlos Tavossos, anche lui della tribù
Guajajara, era il miglior amico di Paulo Paulino, 34 anni, da tutti chiamato
Bad wolf, capo dei "Guardiani della foresta", 123 indigeni che in
piccole squadre, a piedi e a bordo di bici, da un anno pattugliano 413.288.47
ettari dell’Amazzonia centrale. Hanno solo un gps con cui mappano le intrusioni.
Niente radio, niente internet, niente canali tv. Lo Stato si è arreso: troppa
distanza, collegamenti e comunicazioni difficili, i poliziotti conniventi e
tanta corruzione. Così la tribù aveva deciso di organizzarsi in proprio.
Ad aprire le maglie dell’invasione ha contribuito il presidente Jair
Bolsonaro. Con il suo odio per le Ong, gli attivisti sociali, i difensori degli
indigeni. L’Amazzonia è nostra e ci facciamo quello che vogliamo, ha continuato
a tuonare. Chi intralcia viene licenziato. Ma chi resiste rischia di trovare i
killer delle bande che stanno distruggendo la foresta. «Non so chi sono — dice
ancora Tavossos — taglialegna, cercatori d’oro, cacciatori clandestini. Gente
armata e senza scrupoli».
Bad wolf li aveva visti spesso girare in sella alle loro moto lungo i
confini della riserva già devastata dai fuochi di agosto. Gettavano benzina sui
bordi della foresta. I controlli erano aumentati e rafforzati. Soprattutto dopo
la morte sospetta di Jorginho Guajajara, 56 anni, leader del villaggio di
Cocalinho, trovato morto l’11 agosto vicino a un ponte che divide i comuni di
Buriticupu e Arame. Jorginho dava fastidio. Come Paulo Paulino che aveva
ricevuto decine di minacce di morte. Stava per entrare in un programna di
protezione. «Purtroppo», ammette sconsolata Sônia Guajajara, un’icona delle
tribù, prima donna indigena candidata alla vicepresidenza di Maranhão, «sono
arrivati prima loro».
L’ennesimo omicidio ha scosso tutto il Brasile. Il ministro della Giustizia
Sergio Moro, l’ex giudice della Mani pulite brasiliana, ha disposto l’avvio di
un’inchiesta. «Non risparmieremo alcuno sforzo», ha postato su Twitter, «per
consegnare alla giustizia i responsabili di questo grave crimine». «Il terrore
che cresce tra queste comunità», replica Christian Poirier di Amazonia Watch,
«è il risultato delle politiche dello stesso governo che adesso reclama
giustizia. È una enorme contraddizione per non chiamarla ipocrisia». I
Guajajara sanno che nessun responsabile verrà preso. Su 300 omicidi indagati
solo 14 sono approdati in Tribunale. Senza alcun colpevole.
È una strage impunita che colpisce gli indigeni anche in altri Paesi.
Ecuador, Bolivia, Perú, Paraguay, Venezuela. La Colombia quest’anno ha
superato, per numero di morti, il Brasile. La settimana scorsa cinque indigeni sono
stati torturati, uccisi e abbandonati in un fossato nel Cauca, sudovest del
Paese. Facevano rilievi per conto del governo in una zona dominata da clan,
narcos e guerriglieri. Hanno ficcato il naso dove non dovevano: nessuno è
disposto a mollare il business miliardario.
La Repubblica, 4 nov 2019
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