di STEFANIA AUCI
Prof, ma davvero ci permetteranno
di votare? E perché mai?» Così mi hanno accolto i miei alunni, pochi
giorni fa. Alcuni erano abbastanza stupiti, ma la maggior parte ha fatto mostra
di un cinismo pari a quello di un sessantenne deluso dall’esistenza. «Cosa
cambia se votiamo noi? Tanto i politici faranno sempre quello che vogliono. A
loro interessa solo arricchire se stessi e i loro amici». Da docente, ho
cercato di spiegare l’importanza del voto, del come ci renda partecipi della
cosa pubblica. E in risposta ho avuto occhiate di scetticismo o diffidenza.
Quando non addirittura di rassegnazione.
Questo mi ha lasciato addosso una grande amarezza. Sono sconfortata, sì.
Ma non posso dire di essere sorpresa. Ho purtroppo ben chiaro il percorso
che ha portato a quelle reazioni.
Il ricordo delle ore di educazione civica è ancora molto vivo, in me,
benché siano ormai passati diversi anni. Forse non era la materia preferita di
nessuno ma, se non altro, permetteva di conoscere il valore delle norme, il
funzionamento del Parlamento, cosa fosse la democrazia diretta e quella
indiretta. Senza contare che, quando si parlava dell’evoluzione del
diritto di voto in Italia, si ripercorrevano i momenti cruciali della nostra
Storia: dal 1861, quando poteva votare solo chi aveva più di 25 anni e un
reddito annuale superiore a 40 lire, al 1918, quando erano stati ammessi a
votare gli uomini di almeno 21 anni (18 se avevano combattuto durante la prima
guerra mondiale) al 1946, con il riconoscimento del voto alle donne… La vecchia
«Educazione civica» è diventata la nuova «Cittadinanza e costituzione» e non si
tratta solo di un’etichetta diversa: tutto viene semplificato, svuotato di
senso concreto. I ragazzi nati dopo il 2000, spesso tacciati di essere
insensibili e privi di valori, in realtà sono – come tutti gli adolescenti –
uno specchio del comportamento degli adulti. Si vestono di disincanto e di
superficialità, adottano lo stesso atteggiamento e spesso le medesime parole
dei loro genitori. Gridare, come si fa da tempo, che i partiti politici sono
macchine al servizio del singolo politico e non della comunità è un modo di
guardare alla Storia (e al presente) che invita all’inazione e al
non-pensiero e che determina un pericoloso processo di deresponsabilizzazione.
E così i nostri ragazzi finiscono per non avere fiducia nei confronti di chi ci
governa: gli adulti cui loro fanno riferimento non hanno la volontà né il
coraggio di agire, di riflettere su quello che li circonda e di comportarsi in
maniera corretta. Perché è comodo criticare senza agire per cambiare ciò che
non ci aggrada, nascondendosi dietro un atteggiamento di comodo vittimismo.
L’unica cosa che davvero fa breccia in un adolescente è l’esempio, la coerenza,
il far seguire le parole ai fatti. I ragazzi hanno un bisogno spasmodico di
certezze e io lo vedo ogni giorno. Devono sapere che si può credere in
qualcosa, tutti insieme, e che si può cambiare la realtà. Anche con una x su
una scheda elettorale.
Ecco spiegata, per esempio, la forza che esercita su di loro un personaggio
come Greta Thunberg. Greta appare anzitutto come una persona che crede in
quello che fa, che si mette in gioco in prima persona e questo, per i ragazzi,
è garanzia di credibilità e di autenticità. E scintilla di entusiasmo. Un
entusiasmo che noi abbiamo spento a forza di frasi ciniche, di inazione, di
semplificazioni.
Abbiamo privato i ragazzi degli strumenti utili per sviluppare il senso
critico e la responsabilità nei confronti delle istituzioni. E questa è, oggi,
la nostra più grande responsabilità.
La Repubblica Palermo, 8 ottobre 2019
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