NICOLA PINNA
Il carcere duro per i mafiosi d’ora in poi sarà un po’ meno duro. Perché anche a loro, dice la Corte costituzionale, deve essere garantito il diritto a ottenere i permessi premio per uscire dalla cella. E così, dopo il ricorso di Sebastiano Cannizzaro, ex boss del clan Santapaola e di Cosa Nostra nella provincia di Catania, crolla il principio dell’ergastolo “ostativo” e si sgretola uno degli articoli dell’ordinamento penitenziario. La questione riguardava proprio i permessi (articolo 4 bis, comma 1) che vengono costantemente negati agli esponenti della criminalità organizzata. Almeno a quelli che non hanno collaborato con gli investigatori.
Il carcere duro per i mafiosi d’ora in poi sarà un po’ meno duro. Perché anche a loro, dice la Corte costituzionale, deve essere garantito il diritto a ottenere i permessi premio per uscire dalla cella. E così, dopo il ricorso di Sebastiano Cannizzaro, ex boss del clan Santapaola e di Cosa Nostra nella provincia di Catania, crolla il principio dell’ergastolo “ostativo” e si sgretola uno degli articoli dell’ordinamento penitenziario. La questione riguardava proprio i permessi (articolo 4 bis, comma 1) che vengono costantemente negati agli esponenti della criminalità organizzata. Almeno a quelli che non hanno collaborato con gli investigatori.
Tra un ricorso e l’altro, dopo un passaggio alla Cassazione, il caso è finito
all’attenzione della Consulta che prima ha considerato il tema di rilevanza
costituzionale e poi ha deciso che quell’articolo è in contrasto con un
principio costituzionale, quello che prevede l’obiettivo rieducativo della
detenzione. Accolta la richiesta dell’ex boss della provincia etnea, ora la
decisione finisce per modificare le regole sulla vita in carcere di molti dei
detenuti considerati più pericolosi. «La presunzione di “pericolosità sociale”
del detenuto non collaborante - scrivono i giudici costituzionali - non è più
assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di
sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del
carcere, nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla procura
antimafia o antiterrorismo fino al competente Comitato provinciale per l’ordine
e la sicurezza pubblica».
GIULIA CIANCAGLINI
Ai detenuti,
soprattutto quelli accusati di reati di mafia, che nel corso delle indagini non
hanno fornito informazioni utili ai magistrati, che non hanno rivelato i nomi
degli affiliati o che non hanno ammesso le loro responsabilità, i giudici hanno
sempre negato la possibilità di uscire dal carcere per partecipare a progetti
rieducativi o lavorativi. Ma questo, secondo l’avvocato Valerio Vianello, che
ha presentato il ricorso per conto di Sebastiano Cannizzaro, rischia di
compromettere la finalità principale del carcere. «Come è possibile perseguire
l’obiettivo della rieducazione se ad alcuni detenuti, molti dei quali hanno
mantenuto un’eccellente condotta carceraria, viene negato il diritto di
ottenere i premi assicurati a tutti gli altri? - commenta l’avvocato Vianello -
L’obiettivo del nostro ricorso era proprio questo: sancire l’inviolabilità del
principio inserito nella Costituzione, che considera la detenzione un percorso
di recupero delle persone che hanno commesso reati».
La decisione della Corte
costituzionale ora costringerà il Parlamento a una modifica delle norme, la
stessa cosa che era richiesta anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
che ha recentemente condannato l’Italia per il carcere duro e l’ergastolo
ostativo. «L’articolo dell’ordinamento penitenziario che impediva ad alcune
categorie di detenuti di ottenere i benefici - sottolinea il legale - non
teneva in considerazione una serie di motivazioni per le quali alcune persone
non hanno avuto il coraggio o la possibilità di collaborare con la giustizia.
Non tutti hanno avuto la forza di correre il rischio di mettere a repentaglio,
per esempio, la vita dei parenti. Tra l’altro c’è da aggiungere che molti
collaboratori di giustizia hanno scelto questa strada proprio per ottenere
premi, benefici e sconti di pena».
La Stampa, 23.10.2019
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