La redazione de L'Ora diretto da Vittorio Nisticò negli anni '60 |
GUIDO VALDINI
La testimonianza di un ex caporedattore sugli anni
ruggenti del quotidiano, chiuso nel’ 92, a cui domenica viene intestata una
strada
«Anni Ottanta, la gallina canta» , esclamò una
mattina di gennaio del 1980 Gabriello Montemagno nella stanza che
condividevamo, nella palazzina di piazzetta Napoli. Una battuta di saluto che
parafrasava una filastrocca popolare ripresa da Campanile e che, a pensarci
dopo, mi sarebbe suonata profetica. Sarebbe stato un decennio imprevedibile
per L’Ora (a cui domenica viene dedicata una strada), denso di colpi
di scena, passato da una recente gloria alla resistenza, dagli esodi di massa
ai nuovi giovani e alla rivoluzione tecnologica, dalla stanca cooperativa al
rilancio gestionale dell’allora Pds ( ex Pci), dalla speranzosa avventura alla
drammatica fine. Anni cupi e pesanti per Palermo, in balia della ferocia
mafiosa, del degrado urbanistico e dello squallore del centro storico, ma la
cui geografia socio- culturale era in profonda modificazione, e che conosceva
una vivacità creativa sotterranea sorprendente.
Di questi
transiti L’Ora è stato osservatore attento e battagliero sostenitore,
precorrendo giudizi e favorendo impulsi sul nascere, confermando la sua
tradizione di giornale " popolare" e, ad un tempo, di audacia
culturale.
Da critico teatrale (dal 1974 sino alla fine), dove avevo iniziato su
invito di Michele Perriera, mi trovai di fronte ad un panorama che sarebbe
stato in nuce quello su cui si sarebbe fondata in futuro la scena
cittadina. Irrompevano le prime edizioni di Incontroazione, inventata
dal Teatro Libero di Beno Mazzone, che contribuì a sprovincializzare la scena
cittadina; dagli ultimi Travaglini emergevano i primi vagiti di un teatro
autenticamente palermitano, che andava declinando un versante realistico di
toni beffardi (inaugurato da Salvo Licata, giornalista di stoffa speciale,
cresciuto a L’Ora e profondo conoscitore della Palermo "nera"),
connaturato all’estro di Burruano, e quello favolistico e poetico di Franco
Scaldati. E mentre proliferavano tristi scantinati trasformati in teatrini a
colori psichedelici, nasceva il Piccolo Teatro, una sala da 400 posti ad opera
di Nino Drago. Il Biondo era in ostaggio di rassegne curate dalla politica
dell’Azienda di Turismo e della stagione dello Stabile di Catania: ci sarebbe
voluta la direzione di Pietro Carriglio (dal 1978), intellettuale raffinato,
acuto regista e geniale scenografo, a porre le basi per quella che allora per
Palermo apparve una follia, ovvero la creazione di un teatro stabile con una
linea produttiva di alto artigianato. Il ’78 vide la scuola Teatés di Michele
Perriera, il quale, dopo la sua trilogia dei primi anni ’ 70 ed una pausa
durante la quale si era dedicato alle innovative pagine culturali
de L’Ora, diede vita ad un fertile cantiere di formazione. In quel
tempo si udivano ancora gli echi della rivolta studentesca del ’ 77, dove il
teatro finiva con l’essere la forma privilegiata dell’espressività giovanile.
La notte, dopo lo spettacolo, il cronista teatrale si recava al giornale,
svegliando un insonnolito portiere, per scrivere la recensione che sarebbe
uscita il giorno dopo.
Intanto, innamoratami del mestiere, avevo anche intrapreso un lungo
apprendistato all’interno del giornale. Fu quella la stagione dei sette
direttori, preceduta dalla formazione della cooperativa dei giornalisti guidata
da Etrio Fidora, che si era assunto l’onere di dirigere un quotidiano
giunto allo spartiacque della sua esistenza. Chiusi " gli anni
ruggenti" di Vittorio Nisticò, disimpegnatosi il Partito comunista, il
piccolo vascello, nel nuovo formato tabloid, doveva resistere con enormi
sacrifici – ormai isolato quotidiano nazionale del pomeriggio – nell’oceano di
un’informazione dominata dalle grandi concentrazioni editoriali.
Alfonso Madeo, sobria e riservata figura di inviato di punta
del Corriere della sera, succeduto nel ’ 78 a Fidora ( passato al
ruolo di vertice amministrativo), ebbe il merito di dare profondità al
giornale, ma lo conformò alla sua immagine compassata. Durò poco più di un
anno. L’arrivo del suo opposto Nicola Cattedra, vulcanico barese, già
stimato caporedattore di Paese Sera e direttore di Tempo illustrato, fu
una svolta. Elegante e amante di profumi e della buona tavola, sottile fiuto
per persone e cose, conquistò la redazione ed i salotti buoni della città,
politici e non. Assistito da quell’agguerrita " macchina" di giornale
che era Bruno Carbone, cambiò L’Ora, dandogli una veste grafica
emozionale, ampio spazio alle immagini, ma anche ad argomenti di costume e
diversi che non fossero solo le gesta di Cosa nostra. Nel suo stanzone si
vedeva spesso un giovane Leoluca Orlando prepararsi alla "primavera di
Palermo". Durò più di tutti, quasi sei anni. Le redini le prese poi lo
stesso Carbone: in quel periodo si sparava veramente ogni giorno e suo fu
il fortunato titolone " La mafia ha fatto cento". Il ritorno a
sorpresa di Nisticò nell’ 87, sempre capace di idee funamboliche, entusiasmò la
redazione ed avviò il passaggio alla Nuova Editrice Meridionale, che destinò
cospicui investimenti alle nuove tecnologie. Senza perdere inventiva e
autorevolezza, Nisticò instaurò subito con i giovani un felice rapporto di
dimestichezza: in redazione si lavorava febbrilmente fino a sera inoltrata,
conclusa spesso con proverbiali bevute di tequila.
" Pensionato" il vecchio gruppo dirigente, arrivò Tito Cortese,
volto noto come corrispondente Rai da varie capitali europee e autore di una
popolare rubrica televisiva sui consumi. Intanto, il lavoro all’interno del
giornale, prima come caposervizio alla cultura e poi come caporedattore (
insieme a Kris Mancuso e Tano Gullo), mi aveva interamente assorbito,
distogliendomi da qualsiasi teatro che non fosse il vissuto della redazione.
Gentiluomo rigoroso, ma culturalmente lontano dalla " bastarda"
mentalità siciliana, il generoso tentativo di sprovincializzazione del
veneziano Cortese non ebbe successo. E con il letale ridimensionamento del giornale,
subentrò Anselmo Calaciura, intellettuale brillante di temperamento difficile,
in rotta col Giornale di Sicilia, che " palermitanizzò" il
giornale, fornendogli un taglio più agile. Ma a quel punto, assottigliatesi le
vendite e ingrossatesi le fila dei nemici politici, ci sarebbe voluto ben
altro. In un disperato tentativo di rilancio, la proprietà chiamò alla
direzione Vincenzo Vasile, " firma" dell’Unità, che lo aprì sempre di
più alla società civile e ne rese incalzante la cronaca giudiziaria in un
momento di veleni al Palazzo di giustizia. Ma era già tardi.
Il giornale fece appena in tempo a registrare l’omicidio di Salvo Lima con
una coraggiosa edizione straordinaria, che annunciava la stagione più buia
della città. L’8 maggio 1992 fu il suo canto del cigno in edicola; quindici
giorni dopo, l’Italia e Palermo non sarebbero state più le stesse.
Gli ultimi tempi erano stati una vertigine di adrenalina. E non so perché,
quando le sirene della fine si fecero sempre più insistenti, non fui preso da
sfiducia; come un bambino che non concepisce la morte della madre, pensavo
che L’Ora non potesse mai chiudere. L’annuncio ufficiale da Roma mi
svegliò. Quella notte, licenziai la prima pagina col beneaugurante titolo
" Arrivederci" e le firme dei tantissimi lettori che si opponevano
alla chiusura. Abbracciai il proto e tutti i tipografi ad uno ad uno. Salii in
redazione. Non c’era più nessuno. Spensi la luce e un pezzo di cuore mi si
spense.
La Repubblica Palermo, 27 sett 2019
Nessun commento:
Posta un commento