domenica, settembre 29, 2019

Quella notte che spensi la luce al giornale"L’Ora"

La redazione de L'Ora diretto da Vittorio Nisticò negli anni '60

GUIDO VALDINI
La testimonianza di un ex caporedattore sugli anni ruggenti del quotidiano, chiuso nel’ 92, a cui domenica viene intestata una strada
«Anni Ottanta, la gallina canta» , esclamò una mattina di gennaio del 1980 Gabriello Montemagno nella stanza che condividevamo, nella palazzina di piazzetta Napoli. Una battuta di saluto che parafrasava una filastrocca popolare ripresa da Campanile e che, a pensarci dopo, mi sarebbe suonata profetica. Sarebbe stato un decennio imprevedibile per L’Ora (a cui domenica viene dedicata una strada), denso di colpi di scena, passato da una recente gloria alla resistenza, dagli esodi di massa ai nuovi giovani e alla rivoluzione tecnologica, dalla stanca cooperativa al rilancio gestionale dell’allora Pds ( ex Pci), dalla speranzosa avventura alla drammatica fine. Anni cupi e pesanti per Palermo, in balia della ferocia mafiosa, del degrado urbanistico e dello squallore del centro storico, ma la cui geografia socio- culturale era in profonda modificazione, e che conosceva una vivacità creativa sotterranea sorprendente.
Di questi transiti L’Ora è stato osservatore attento e battagliero sostenitore, precorrendo giudizi e favorendo impulsi sul nascere, confermando la sua tradizione di giornale " popolare" e, ad un tempo, di audacia culturale.
Da critico teatrale (dal 1974 sino alla fine), dove avevo iniziato su invito di Michele Perriera, mi trovai di fronte ad un panorama che sarebbe stato in nuce quello su cui si sarebbe fondata in futuro la scena cittadina. Irrompevano le prime edizioni di Incontroazione, inventata dal Teatro Libero di Beno Mazzone, che contribuì a sprovincializzare la scena cittadina; dagli ultimi Travaglini emergevano i primi vagiti di un teatro autenticamente palermitano, che andava declinando un versante realistico di toni beffardi (inaugurato da Salvo Licata, giornalista di stoffa speciale, cresciuto a L’Ora e profondo conoscitore della Palermo "nera"), connaturato all’estro di Burruano, e quello favolistico e poetico di Franco Scaldati. E mentre proliferavano tristi scantinati trasformati in teatrini a colori psichedelici, nasceva il Piccolo Teatro, una sala da 400 posti ad opera di Nino Drago. Il Biondo era in ostaggio di rassegne curate dalla politica dell’Azienda di Turismo e della stagione dello Stabile di Catania: ci sarebbe voluta la direzione di Pietro Carriglio (dal 1978), intellettuale raffinato, acuto regista e geniale scenografo, a porre le basi per quella che allora per Palermo apparve una follia, ovvero la creazione di un teatro stabile con una linea produttiva di alto artigianato. Il ’78 vide la scuola Teatés di Michele Perriera, il quale, dopo la sua trilogia dei primi anni ’ 70 ed una pausa durante la quale si era dedicato alle innovative pagine culturali de L’Ora, diede vita ad un fertile cantiere di formazione. In quel tempo si udivano ancora gli echi della rivolta studentesca del ’ 77, dove il teatro finiva con l’essere la forma privilegiata dell’espressività giovanile. La notte, dopo lo spettacolo, il cronista teatrale si recava al giornale, svegliando un insonnolito portiere, per scrivere la recensione che sarebbe uscita il giorno dopo.
Intanto, innamoratami del mestiere, avevo anche intrapreso un lungo apprendistato all’interno del giornale. Fu quella la stagione dei sette direttori, preceduta dalla formazione della cooperativa dei giornalisti guidata da Etrio Fidora, che si era assunto l’onere di dirigere un quotidiano giunto allo spartiacque della sua esistenza. Chiusi " gli anni ruggenti" di Vittorio Nisticò, disimpegnatosi il Partito comunista, il piccolo vascello, nel nuovo formato tabloid, doveva resistere con enormi sacrifici – ormai isolato quotidiano nazionale del pomeriggio – nell’oceano di un’informazione dominata dalle grandi concentrazioni editoriali.
Alfonso Madeo, sobria e riservata figura di inviato di punta del Corriere della sera, succeduto nel ’ 78 a Fidora ( passato al ruolo di vertice amministrativo), ebbe il merito di dare profondità al giornale, ma lo conformò alla sua immagine compassata. Durò poco più di un anno. L’arrivo del suo opposto Nicola Cattedra, vulcanico barese, già stimato caporedattore di Paese Sera e direttore di Tempo illustrato, fu una svolta. Elegante e amante di profumi e della buona tavola, sottile fiuto per persone e cose, conquistò la redazione ed i salotti buoni della città, politici e non. Assistito da quell’agguerrita " macchina" di giornale che era Bruno Carbone, cambiò L’Ora, dandogli una veste grafica emozionale, ampio spazio alle immagini, ma anche ad argomenti di costume e diversi che non fossero solo le gesta di Cosa nostra. Nel suo stanzone si vedeva spesso un giovane Leoluca Orlando prepararsi alla "primavera di Palermo". Durò più di tutti, quasi sei anni. Le redini le prese poi lo stesso Carbone: in quel periodo si sparava veramente ogni giorno e suo fu il fortunato titolone " La mafia ha fatto cento". Il ritorno a sorpresa di Nisticò nell’ 87, sempre capace di idee funamboliche, entusiasmò la redazione ed avviò il passaggio alla Nuova Editrice Meridionale, che destinò cospicui investimenti alle nuove tecnologie. Senza perdere inventiva e autorevolezza, Nisticò instaurò subito con i giovani un felice rapporto di dimestichezza: in redazione si lavorava febbrilmente fino a sera inoltrata, conclusa spesso con proverbiali bevute di tequila.
" Pensionato" il vecchio gruppo dirigente, arrivò Tito Cortese, volto noto come corrispondente Rai da varie capitali europee e autore di una popolare rubrica televisiva sui consumi. Intanto, il lavoro all’interno del giornale, prima come caposervizio alla cultura e poi come caporedattore ( insieme a Kris Mancuso e Tano Gullo), mi aveva interamente assorbito, distogliendomi da qualsiasi teatro che non fosse il vissuto della redazione. Gentiluomo rigoroso, ma culturalmente lontano dalla " bastarda" mentalità siciliana, il generoso tentativo di sprovincializzazione del veneziano Cortese non ebbe successo. E con il letale ridimensionamento del giornale, subentrò Anselmo Calaciura, intellettuale brillante di temperamento difficile, in rotta col Giornale di Sicilia, che " palermitanizzò" il giornale, fornendogli un taglio più agile. Ma a quel punto, assottigliatesi le vendite e ingrossatesi le fila dei nemici politici, ci sarebbe voluto ben altro. In un disperato tentativo di rilancio, la proprietà chiamò alla direzione Vincenzo Vasile, " firma" dell’Unità, che lo aprì sempre di più alla società civile e ne rese incalzante la cronaca giudiziaria in un momento di veleni al Palazzo di giustizia. Ma era già tardi.
Il giornale fece appena in tempo a registrare l’omicidio di Salvo Lima con una coraggiosa edizione straordinaria, che annunciava la stagione più buia della città. L’8 maggio 1992 fu il suo canto del cigno in edicola; quindici giorni dopo, l’Italia e Palermo non sarebbero state più le stesse.
Gli ultimi tempi erano stati una vertigine di adrenalina. E non so perché, quando le sirene della fine si fecero sempre più insistenti, non fui preso da sfiducia; come un bambino che non concepisce la morte della madre, pensavo che L’Ora non potesse mai chiudere. L’annuncio ufficiale da Roma mi svegliò. Quella notte, licenziai la prima pagina col beneaugurante titolo " Arrivederci" e le firme dei tantissimi lettori che si opponevano alla chiusura. Abbracciai il proto e tutti i tipografi ad uno ad uno. Salii in redazione. Non c’era più nessuno. Spensi la luce e un pezzo di cuore mi si spense.
La Repubblica Palermo, 27 sett 2019

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