di ANNALISA CUZZOCREA
ROMA — Nemici mai, giura Matteo Renzi. Ma l’ex premier ed ex
segretario lascia il Pd. Non ascolta gli appelli di Zingaretti, non crede a
un’unità che considera di facciata. «Voglio passare i prossimi mesi a
combattere contro Salvini», dice a Repubblica. E spiega le ragioni di una
scelta destinata a cambiare tutto.
Ha davvero deciso lo strappo?
«I gruppi autonomi nasceranno già questa settimana. E saranno un bene per
tutti: Zingaretti non avrà più l’alibi di dire che non controlla i gruppi pd
perché saranno "derenzizzati". E per il governo probabilmente si
allargherà la base del consenso parlamentare, l’ho detto anche a Conte. Dunque
l’operazione è un bene per tutti, come osservato da Goffredo Bettini. Ma questa
è solo la punta dell’iceberg. Il ragionamento è più ampio e sarà nel Paese, non
solo nei palazzi».
Cosa non ha ottenuto dalla nascita del
nuovo governo che giustifichi l’addio?
«Non è questo il punto. Se penso a come erano rappresentate le istituzioni
un mese fa dico che il Conte bis è un miracolo. Aver mandato a casa Salvini
resterà nel mio curriculum come una delle cose di cui vado più fiero».
Anche se per farlo il Pd non è passato dal
voto?
«Si chiama democrazia parlamentare! Il leader della Lega usava il Viminale
per educare all’odio. Quando, in evidente stato di sovraeccitazione, chiede
pieni poteri, può accadere qualsiasi cosa: l’uscita dall’euro, la nomina dei
suoi amici che chiedono tangenti ai russi alla guida di Eni. La recessione che
avrebbe seguito la campagna di promesse e fake news non avrebbe solo fatto
aumentare Iva e spread: avrebbe messo in ginocchio le imprese».
Adesso però lei spacca il Pd indebolendo
proprio il fronte anti-Salvini. Che senso ha?
«È il contrario. Abbiamo fatto un capolavoro tattico mettendo in minoranza
Salvini con gli strumenti della democrazia parlamentare. Ma il populismo
cattivo che esprime non è battuto e va sconfitto nella società. E credo che le
liturgie di un Pd organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una
faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo non funzionino
più».
L’unità è una richiesta che viene
soprattutto dalla base. Zingaretti ha fatto di tutto per mantenerla. Cos’è che
gli rimprovera?
«Non ho un problema personale con Zingaretti, né lui ha un problema con me.
Abbiamo sempre discusso e abbiamo sempre mantenuto toni di civiltà personali.
Qui c’è un fatto politico. Il Pd nasce come grande intuizione di un partito
all’americana capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle
primarie. Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal
fuoco amico. Oggi il Pd è un insieme di correnti. E temo che non sarà in grado
da solo di rispondere alle aggressioni di Salvini e alla difficile convivenza
con i 5 Stelle».
Rischia di passare alla storia come colui
che ha ucciso il partito che aveva l’ambizione di unire la tradizione
socialdemocratica e quella cattolica, i Ds e la Margherita. Lo sa?
«Ma dai! Sono cinque anni che mi dite che rovino il Pd. Basta con questa
tiritera sul passato. C’è un futuro ricco di difficoltà, ma bellissimo, là
fuori. Lo andiamo a prendere? Lo costruiamo? O ci limitiamo ad aspettarlo
rinchiusi nelle nostre correntine? Diciamo la verità: c’è una corrente
culturale nella sinistra italiana per la quale io sono l’intruso».
Perché ha spostato a destra il Partito
democratico?
«Ho portato il Pd al massimo mai raggiunto: 41%. Ho garantito anni di
governo che hanno portato le unioni civili, il dopo di noi, le leggi sul
sociale e sulla cooperazione internazionale. Abbiamo fatto un incredibile piano
per le aziende. Finalmente si è iniziato una lotta all’evasione fiscale seria.
Il Pil era negativo e lo abbiamo portato in terreno positivo. Chi guadagna poco
ha almeno gli 80 euro, su cui tutti fanno ironie ma che nessuno tocca. Quando
sono arrivato c’erano 20 milioni di euro sulla povertà, quando sono andato via
2,7 miliardi, e altri 2 sulle periferie. C’è più sinistra in questo elenco che
in anni di rivendicazioni e convegni della ditta».
Quello che rivendica lo ha fatto grazie
anche alla famiglia politica che ha guidato.
«Lo abbiamo fatto insieme. Sarebbe facile far polemica oggi. Il primo gesto
del nuovo Pd è stato mettere alle riforme un deputato che ha votato No al
referendum e al lavoro un dirigente contrario al Jobs Act. Ma non è questo che
mi fa uscire. Mi fa uscire la mancanza di una visione sul futuro».
Sembra una vendetta.
«Ho votato la fiducia persino al governo coi grillini, figuriamoci se mi
preoccupano i risentimenti o le vendette. Mi hanno sempre trattato come un
estraneo, come un abusivo, anche quando ho vinto le primarie. Ancora oggi c’è
una corrente culturale che paragona i due Matteo mettendoli sullo stesso piano.
È il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che
non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta.
Del resto il contrappasso è semplice: io esco, nei prossimi mesi rientrano
D’Alema, Bersani e Speranza. Va via un ex premier, ne torna un altro. Tutto si
tiene».
Parla di fuoco amico, ma ammesso e non
concesso che Bersani, Epifani, D’Alema siano usciti dal Pd per farle la guerra,
lei non sta facendo lo stesso? Non sta tradendo la fiducia di chi ha votato il
Pd anche per le sue idee?
«Scriverò una lettera aperta agli elettori dem, ma non accetto lezioni da
chi ha votato altre liste alle ultime elezioni. Con il nuovo governo e con la
fase nuova che si apre, per lo più in un sistema proporzionale, è evidente che
non puoi passare la giornata a discutere al tuo interno se vuoi battere il
populismo nel Paese».
Quindi è d’accordo con il ritorno al
proporzionale?
«No. Ma lo rispetterò se è parte dell’accordo di governo. Sogno che
Zingaretti e Di Maio si sveglino un giorno proponendo il monocameralismo, il
doppio turno, un sistema in cui la sera sai chi ha vinto le elezioni. Non
cambio idea».
È quello che vuole Salvini.
«Non conta, se è giusto. Ma so che c’è un patto tra Pd e 5 stelle sulla
legge elettorale e non sarò io a violarlo o a votare contro. Voglio passare i
prossimi mesi a combattere il salvinismo nelle piazze, nelle scuole, nelle
fabbriche. Faremo comitati ovunque. Non posso farlo se tutte le mattine devo
difendermi da chi mi aggredisce in casa mia».
Suona come un agguato: ha fatto partire il
governo, ora si stacca per avere una quota di maggioranza decisiva?
«Sarebbe stato un agguato se lo avessi fatto tra sei mesi. Farlo il giorno
del giuramento significa partire con chiarezza, stabilizzarlo. Non chiedo
nulla. A Zingaretti lasciamo la maggioranza dei parlamentari. Mi avrebbe fatto
comodo godere della rendita di queste ultime settimane per avere un potere
d’interdizione nel Pd. Ma bisogna dire, non interdire. Fare, non bloccare.
Proporre, non contrattare. E io credo che ci sia uno spazio per una cosa nuova.
Che non è di centro o di sinistra, ma che occupa lo spazio meno utilizzato
dalla politica italiana: lo spazio del futuro».
Lo chiama futuro per non prendere
posizione? E prepararsi a raccogliere pezzi di Forza Italia?
«Non è così. Mentre noi litighiamo sul nulla, sta cambiando il mondo. L’intelligenza
artificiale rivoluziona le aziende, la quotidianità, la vita nelle città:
il populismo non conosce l’intelligenza artificiale, il populismo è stupidita
naturale. Noi possiamo fare dell’Italia un laboratorio di innovazione
spaventoso, mantenendo i valori di umanità e di umanesimo che abbiamo nel dna. Ecco
perché era fondamentale difendere le povere vite prese in ostaggio da Salvini
sui barconi».
Quanti verranno con lei?
«I parlamentari saranno trenta, più o meno. Non dico che c’è un numero
chiuso, ma quasi. La vera sfida saranno le migliaia di persone che sul
territorio faranno qualcosa di nuovo e di grande. E la Leopolda sarà
un’esplosione di proposte. Ci riconoscerete dal sorriso, non dal rancore. Voi
la chiamate scissione, io la chiamo novità. E non mi sentirete mai parlare male
di Zingaretti o Orlando o Franceschini: a loro mando un abbraccio e auguro buon
lavoro. Quando una storia finisce, finisce. Restiamo amici, se vi va. Ma anche
se non vi va, per noi non sarete mai nemici».
Tiene dentro ai gruppi pd uomini ancora
suoi per esercitare un doppio potere?
«Il potere, il diritto di parola sulle nomine, sono sciocchezze. Io le
nomine le ho fatte quando ero premier. Ad esempio se Enel viaggia così forte è
perché abbiamo scelto un board e un CEO straordinari. Non sono interessato a
mettere il naso nelle nomine, ma voglio dire la mia sulla strategia. Perché
continuiamo a tenere divise Leonardo- Finmeccanica e Fincantieri? Che
senso ha? Non rischiamo di farci mangiare da partner europei che investono più
di noi sullo spazio e sulla difesa?».
Letta a Radio Capital ha detto: «Non posso
credere che Renzi vada via perché non c’è un sottosegretario di Pontassieve».
«Per rispetto della sua intelligenza non commento una simile idiozia».
Quand’è che ha deciso?
«Quando ho visto i ragazzi della scuola di formazione "Meritare
l’Italia". Sono bellissimi i giovani che si avvicinano alla politica. Ho
preso lo stipendio di agosto da senatore e d’accordo con mia moglie l’ho
destinato alla scuola. Mi interessa costruire una Casa dove i millennials
possano fare la differenza. E se questo mi costringe a ripartire da zero, lo
faccio col sorriso. Riparto con lo zaino per una strada meno battuta: parlando
con la gente non coi gruppi dirigenti».
Come si chiama il nuovo partito?
«Il nome non glielo dico, ma non sarà un partito tradizionale, sarà una
casa. E sarà femminista con molte donne di livello alla guida. Teresa Bellanova
sarà la capo delegazione nel governo. Una leader politica, oltre che una ministra.
Per me le donne non sono figurine e l’ho sempre dimostrato. In ogni provincia a
coordinare saranno un uomo e una donna: la diarchia è fondamentale per
incoraggiare la presenza femminile».
Appoggerà le intese Pd-M5S alle regionali?
«A me l’alleanza strategica con Di Maio non convince. Non ho fatto tutto
questo lavoro per morire socio di Rousseau. Per me la politica è un’altra cosa
rispetto all’algoritmo di Casaleggio. Ma non voglio disturbare il Pd. La nostra
Casa non si candiderà né alle regionali né alle comunali almeno per un anno.
Chi vorrà impegnarsi lo farà con liste civiche o da indipendente. La prima
elezione cui ci presenteremo saranno le politiche, sperando che siano nel 2023.
E poi le Europee del 2024. Abbiamo tempo e fiato».
Puntando a quale obiettivo? Non teme che
le sue idee, andando altrove, rischino di sparire?
«Il mio amico Franceschini me lo ha scritto ieri sera via sms. Uscirai dal
Pd e non ti considererà più nessuno. Può darsi. Mi piace da impazzire quando mi
dicono che sono morto. L’ultimo che lo h pensato si sta ancora leccando le
ferite. Faceva il ministro dell’Interno. Adesso lui è tornato al Papeete e il
Viminale è un posto più civile».
Che succederà alla Leopolda?
«La Leopolda non è mai stata una manifestazione di partito. La aprirà Dario
Nardella, che è mio fratello e che resterà nel Pd. Certo sarà chiusa come
sempre dall’intervento di Teresa Bellanova e sarà la sede in cui presenteremo
il simbolo. Ma sarà uno spazio di libertà per tutti. Parleremo dell’Italia
2029, dei prossimi 10 anni, non dei prossimi 10 giorni».
Perché un Pd diviso dovrebbe essere più
efficace contro il centrodestra. Non lo rafforza?
«Io voglio fare la guerra a chi semina odio. I prossimi anni li voglio
passare in contrapposizione frontale contro il populismo di Salvini. Voglio
sperare che anche il Pd si preoccupi di lui e non di Matteo Renzi. Non ci sono
più alibi, non c’è più il parafulmine, ognuno cammini libero per la sua strada.
In mezzo alla gente, non solo nei gruppi parlamentari. La guerra voglio farla a
Salvini, non a Zingaretti. Lascio la comodità e mi riprendo la libertà. Ma c’è
da costruire un nuovo modello di comunità politica, innovativo, non legato agli
schemi ottocenteschi. Io ci proverò con tutto il mio entusiasmo e la mia determinazione.
Saremo in tanti».
La Repubblica, 17 settembre 2019
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