Carabiniere allo Zen |
di Gery Palazzotto
Che allo Zen una processione religiosa faccia l’inchino non davanti
alla casa di un boss ma davanti alla caserma dei carabinieri è un fatto, è
l’apertura di un sentiero alternativo rispetto alla strada battuta sinora. E
che ogni forma di trionfalismo dovrebbe essere vietata per decreto è un punto
di partenza imprescindibile nel cercare di ragionare su un prototipo di
coscienza civile collettiva. Però qualcosa è accaduto, anche se considerando
l’esiguo numero di partecipanti al corteo si può tranquillamente parafrasare
Neil Armstrong: un piccolo inchino per l’uomo, un discreto balzo per la
comunità.
Il vero dibattito è adesso sul contesto in cui questo evento si è
verificato e sulla maniera di narrarlo e/o interpretarlo. Esistono due scuole
di pensiero, il cui contrasto è ancora più evidente dopo il successo del film
di Franco Maresco, "La mafia non è più quella di una volta". La
crudezza dello Zen - che è la cristallizzazione della crudezza palermitana per
impatto metaforico e valore simbolico - va esposta senza altri filtri che non
siano quelli del linguaggio cinematografico, che è comunque un elemento di
finzione, oppure esiste una narrazione che può descrivere il lato buio della
luna senza per forza oscurarla tutta?
La partita sul rilancio della credibilità di una città che si specchia nel
suo quartiere simbolo per degrado e divieto di speranza, si gioca non solo sui
fatti ma anche su come incatenarli logicamente.
Palermo ha uno strabismo narrativo di se stessa che ha pochi termini di
confronto in tutto il mondo. Una visione laica dell’apparente miracolo è
l’unico modo per smetterla di scolpire il pregiudizio sulla roccia di confine
tra città-bene e città in abbandono.
La Repubblica Palermo, 27 settembre 2019
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