Ilda Boccassini |
di Piero Colaprico
MILANO — Giovanni Falcone, Ilda Boccassini. Se non si capisce questo
segmento, non si capiscono le scelte di un magistrato che, alla fin fine,
nessuno dei suoi colleghi ha voluto che facesse carriera. Di qualsiasi
argomento del codice penale si sia occupata – mafie, corruzione, terrorismo –
ha sempre portato a casa il risultato. Sono le sue inchieste che l’hanno
trasformata per moltissimi "in un mito", come si diceva, ma nello
stesso per altri è diventata un "nemico". Questa settimana il plenum
del consiglio superiore della magistratura prende atto che sta per compiere 70
anni e il "collocamento a riposo" è nei fatti, anche se immaginare
"la dottoressa", come tutti la chiamano, lontana dall’ufficio dove
restava sino a sera, non è facile.
La prima inchiesta con il metodo Boccassini (lei dice sempre "metodo
Falcone", ma non è lo stesso) si chiama Duomo connection e si svolge a
Milano alla fine degli anni ’80. Mani pulite, che attaccherà la corruzione
politica con il pool, comincerà nel 1992. Lei prima dei colleghi scopre uno
"stile". Una famiglia di Cosa nostra, fornita di assassini e
trafficanti, deve costruire delle case e per poterlo fare deve pagare la
tangente a chi qui a Nord è più forte: il partito socialista. Lo scandalo è
gigantesco, le microspie che sono state piazzate nel cantiere dalla squadra del
"capitano Ultimo" raccontano una metropoli nera che può lasciare
esterrefatti. L’asse Palermo- Milano dell’antimafia diventa sempre più solido,
ma il 23 maggio 1992 c’è "l’attentatuni", Falcone, la moglie, la
scorta muoiono.
Boccassini sceglie la sua barricata. Critica chi aveva criticato Falcone,
rompe amicizie, si fa giudicare da Francesco Saverio Borrelli come inadatta a
lavorare in pool (poi faranno pace, la stima e l’affetto tra i due erano
altissimi) e andrà a vivere "bunkerizzata" in Sicilia, per
indagare sulle stragi.
È lei che, inascoltata, avverte i colleghi siciliani che il pentito
Vincenzo Scarantino, che aveva collaborato per la strage di Paolo Borsellino,
nel settembre successivo, stava raccontando bugie. Ed è "Ultimo" che,
nel gennaio del ’93, sbatte a terra il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, cercato
invano da decenni. Il metodo, alla fin fine, è sempre uno: trovare la
persona giusta da seguire, o da interrogare, e stringere il laccio quando non
ci sono possibilità di mentire.
Tornata a Milano, Boccassini contraddice le malignità che la vogliono incapace
del lavoro di squadra. Affianca Gherardo Colombo, e cioè uno di quelli che
aveva pesantemente bollato come ostile a Falcone, nell’inchiesta clamorosa
sulle corruzioni ai giudici di Roma, organizzate da Cesare Previti e
pagate da Silvio Berlusconi. Nel 2007 mette in ginocchio gli ultimi brigatisti
rossi, reduci degli Anni di piombo, assassini totalmente fuori tempo. E quando
diventa procuratore aggiunto della Distrettuale antimafia, mette in linea ogni
informazione con i colleghi, quasi una ventina, e non trapela un fiato:
chiunque lavori con lei sa che non può fare da "talpa". I suoi
dicevano testualmente «Se ne becca uno, se lo mangia». Il suo metodo si
moltiplica.
Ci sono state a Milano fondamentali inchieste antimafia, ma gli
investigatori coordinati da Boccassini riescono a filmare le votazioni delle
famiglie di ‘ndrangheta per il loro rappresentante e qualche giuramento di
affiliazione. Video che fanno il giro del mondo. Ed è così che, quando Edmondo
Bruti Liberati, che viene dal civile, diventa il capo della Procura di Milano,
si affida a lei per due compiti delicatissimi.
Una, l’inchiesta su Ruby Rubacuori e Silvio Berlusconi. È vero, come scrive
sua figlia Marina, che Berlusconi è stato infine assolto, ma è anche vero che
le sue non erano "cene eleganti", erano porno feste, alle quali aveva
partecipato una prostituta di 17 anni, scappata da una comunità di recupero in
Sicilia e approdata ad Arcore, nella casa del Presidente del Consiglio.
L’altra inchiesta riguarda Expo e va a beccare due vecchi arnesi della
Prima Repubblica, il comunista Primo Greganti e il democristiano Gianstefano
Frigerio, che provavano a mettere le mani negli appalti. Condannati entrambi.
Con un simile curriculum, Boccassini ipotizzava che avrebbe potuto ricoprire il
ruolo di procuratore capo. Non è andata così, il Csm a metà del 2016 nomina
Francesco Greco e, arrivati all’ultimo quadrimestre del 2019, si può dire che
"la dottoressa" non sia stata più utilizzata al meglio. E, se ne ha
sofferto, sinora se l’è tenuto per sé.
La Repubblica, 8 sett 2019
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