di Giuliano Foschini
Vincenzo, 53 anni, lavorava per 3,50 euro all’ora: fino a qualche settimana
fa tirava fuori dalla terra pomodori nell’azienda di uno dei più importanti
imprenditori agricoli di Foggia, prima che la procura non lo arrestasse. Ines,
invece, raccoglieva mirtilli e lamponi in Piemonte per poco meno di 5 euro
all’ora: «Ma i padroni non segnavano tutte le giornate di lavoro» hanno
scoperto i carabinieri. Un po’ come accadeva a Paola Clemente, morta di fatica
a 49 anni mentre raccattava uva per due euro l’ora in Puglia, a luglio del
2015: in borsa, all’obitorio, le hanno trovato un pettine, che le serviva per
togliere la terra dai capelli. E una busta paga fasulla, che invece serviva per
dimostrare che tutto era a posto, in caso di controlli.
Vincenzo. Ines, Paola. Così come Pasquale Fusco, il bracciante campano
morto qualche giorno fa sotto una serra per i meloni a Giugliano, sono alcuni
delle migliaia di schiavi italiani, travestiti da braccianti, che ogni mattina
lavorano nelle campagne del nostro paese. «Uomini e donne — per usare le parole
di Pino Gesmundo, segretario pugliese della Cgil che della battaglia al
caporalato ha fatto una bandiera — che hanno abdicato a ogni diritto, anche
spesso quello alla vita, che accantonano la dignità per cercare di portare a casa
la "giornata" di lavoro». In Italia ogni anno lavorano poco più di un
milione di braccianti agricoli, il 28 per cento dei quali stranieri. Secondo le
ultime statistiche, un’azienda su due è fuorilegge e la maggior parte delle
infrazioni riscontrate riguardano proprio le paghe dei lavoratori. «Non è vero,
come magari è più facile immaginare, che gli unici schiavi siano cittadini
irregolari e per questo in situazioni di fragilità e debolezza particolari —
spiega Francesca Pirrelli, procuratrice aggiunta di Foggia, dove è nata
una squadra di magistrati dedicata espressamente al caporalato — Nelle
nostre indagini emergono sempre più spesso casi di braccianti italiani e
stranieri regolari che lavorano per pochi euro l’ora, costretti da una
situazione di bisogno economico. C’è stata una trasformazione di questo tipo di
reati: non ci troviamo di fronte a lavoratori in nero. Ma in grigio. Hanno cioè
contratti, buste paga. Ma viene segnato loro molto meno di quello che
effettivamente lavorano». Era quanto accaduto a Paola Clemente: il
processo ai suoi caporali è in corso al tribunale di Trani. Una di loro,
Giovanna Marinaro, italianissima, è stata recentemente riacciuffata a Taranto
mentre portava braccianti italiane a raccogliere fragole. Quello che accade, è
ben spiegato proprio negli atti di quel processo. Racconta Tina: «Inutile fare
la guerra con il caporale: la perdi. Sarà per questo che mai nessuno si è
permesso di ribellarsi». A decidere chi lavora è infatti il caporale, che oggi
lavora in un’agenzia interinale. O si nasconde dietro una cooperativa per
il trasporto dei lavoratori. «Giovanna Marinaro, quando eravamo sotto il
vigneto, si aggirava tra i filari dicendo a voce alta: "Quanto prendete
voi al giorno, 40 euro! Voi prendete 40 al giorno"», racconta Filomena,
che al giorno invece ne guadagnava 20 o poco più. «Attenzione a come parlate»,
ci diceva, «perché se no finite di testa sotto terra...». Era impossibile
ribellarsi: «Se dici che vuoi i 40 euro giornalieri come da contratto, Ciro
dice "statti a casa". E noi abbiamo bisogno di lavorare». E così
accettavano che in busta paga risultassero sette euro l’ora, quando invece
intascavano poco meno della metà.
Proprio in nome di Paola Clemente era però nata una legge, la 199, voluta
dall’allora ministro Maurizio Martina, che avrebbe dovuto mettere fine a questo
scempio. La legge c’è. Funziona nella sua parte repressiva (le operazioni si
ripetono, le procure si muovono). Ma per salvare la vita a Pasquale, mentre
raccoglieva i meloni, serviva altro. Non è mai stata attuata «tutta la parte
preventiva — denuncia Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil —
che prevedeva l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, trasporto e
accoglienza. Soltanto così si toglierebbe veramente ogni forza dalle mani dei caporali
e degli imprenditori che ad essi si rivolgono». Per dire: l’ormai ex ministro
dell’Interno, Matteo Salvini, e quello dell’Agricoltura, Gianmarco Centinaio,
avevano annunciato di voler mettere mano alle norme. Non in difesa dei
lavoratori, ma perché considerate troppo punitive per gli imprenditori che, se
colti a sfruttare i braccianti, rischiano anche di perdere il controllo
dell’azienda. Il ministro Luigi di Maio a settembre scorso aveva annunciato
invece «un tavolo permanente sul caporalato». È passato un anno e quel tavolo
non è stato più riconvocato. Pasquale, intanto, è morto di fatica.
La Repubblica, 4 settembre 2019
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