La leggenda del falso bandito. Qui sopra, Giuseppe Villella (1802-1864) e, sopra, il suo cranio custodito al museo Lombroso di Torino |
Storia finita in Cassazione di una contesa tra Torino e la Calabria. Respinto il ricorso neoborbonico, il cranio di Giuseppe Villella resta al
museo dedicato al padre della fisiognomica (e di tanti errori fatali)
Non era solo Amleto a dialogare col teschio in mano. Più o meno la stessa
conversazione è toccata in sorte ai giudici della Corte di Cassazione, cui
spettava pronunciarsi sul futuro domicilio del cranio di Giuseppe Villella,
defunto dalla bellezza di 155 anni. Mai si ebbe verdetto più spinoso: essendo
il Villella calabrese, natio di Motta S. Lucia, poteva finalmente il suo osseo
muso tornare a casa, anziché restare nell’anonima teca di un museo torinese? La
risposta, tanto per dirlo subito, è stata un no.
Ora, l’interesse della vicenda non sta ovviamente nella negata
trasmigrazione di un cranio, quanto nei densi correlati che essa evoca sul tema
antico dell’errore. Sì: l’errore. Perché si dà il caso che il suddetto Villella
avesse maturato in vita un’invidiata fama di brigante, tale da spingere il
celebre Lombroso a reclamarne il teschio per accurata analisi. Colpo di scena:
il terribile malavitoso mostrava una fossetta occipitale! Era giusto l’anomalia
anatomica in cui da tempo Lombroso anelava di imbattersi, per certificare che
«i criminali nascono criminali ». Eureka. Quando si dice "la prova che
mancava".
Villella fu insomma il passaggio decisivo, casuale e miracoloso, un po’
come la mela di Isaac Newton o la muffa che portò Fleming alla penicillina. È
più che comprensibile, dunque, che il cranio rivelatore del perfido calabro
faccia mostra di sé da decenni nel museo dedicato a Lombroso. Peccato solo che,
a un’adeguata verifica dei fatti, non solo la teoria di Lombroso si sia
mostrata aria fritta, ma sia andata in crisi anche la statura criminale del
Villella: egli risulta aver rubato giusto qualche forma di cacio, ricotta, qua
e là un filone di pane e forse un paio di capretti.
Non propriamente un Al Capone, né un Arsenio Lupin. Tant’è: non è dato
sapere cosa o chi avesse promosso un furfantello qualunque al rango di spietato
Billy the Kid, quel che è noto è che nel 1864, in quel di Pavia, il pericoloso
criminale chiudeva gli occhi per sempre affetto da tifo, tosse e diarrea da
scorbuto. E fu per lui la fine.
O meglio: lo sarebbe stata, se non fosse che una fossetta occipitale riaprì
le danze servendo al Lombroso l’assist perfetto. Ma è moralmente accettabile
che un povero Cristo figuri ai posteri per ciò che non era? Lode sia al
municipio di Motta S. Lucia (Catanzaro) che da anni ascrive tra le sue priorità
non solo riportare in patria il conteso cranio, ma anche risarcire l’indegno
danno di immagine creato da Lombroso all’innocente concittadino.
Sulla valorosa battaglia dei neoborbonici calabresi si abbatte ora, come
una mannaia, il verdetto della Cassazione: «Nessuno tocchi quel teschio, il suo
indirizzo era e resterà a Torino». Perché mai? Perché il sentiero della scienza
è costellato di passi falsi, di errori, di scivolate talvolta imbarazzanti, ma
senza sbagliare nessuno vedrà mai la luce. In sintesi, da oggi in poi i
visitatori del sistema museale torinese potranno sostare davanti a una teca su
cui – immaginiamo – sarà scritto a caratteri cubitali «ecco il cranio di un
non-brigante su cui fu formulata una non-teoria». E in effetti sarà
un’esperienza oltremodo educativa: insegnerà che ben prima dei social e delle
fake-news, si potevano affibbiare etichette di ogni genere senza la minima
riprova, e magari costruirci sopra dogmi marmorei del tipo «chi è criminale, ce
l’ha nel sangue», «la razza condiziona l’intelligenza » oppure «chi è immigrato
delinque». A chi lo riterrà un accostamento azzardato, vorrei ricordare che
anche le teorie sul primato della razza ariana vantavano a riprova scientifica
la dissezione di svariati crani.
Ma di errori, si sa, è piena la storia. Ne paghiamo ancora il prezzo.
La Repubblica, 21 agosto 2019
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