Il paginone de "La Sicilia" del 19 agosto 1997 dedicato a Russo |
DINO PATERNOSTRO
Il colonnello dei carabinieri era un
noto investigatore al centro di delicate indagini di mafia. Venne ucciso a
Ficuzza il 20 agosto del 1977 con l’amico Filippo Costa. Domani l’Arma lo ricorderà ancora una volta nella
piazza della borgata. Dietro l’esecuzione c’era l’affare della Diga Garcia. Tra il 1976 e il 1977 un'agghiacciante serie di delitti a Corleone
Sembrava una serata d’estate come tante
altre, quella del 20 agosto 1977 a Ficuzza, piccola borgata a due passi da Corleone.
E invece fu una serata tragica. Erano circa le 21.30, quando il colonnello dei
carabinieri Giuseppe Russo decise di uscire per fare due passi. Aveva appena finito
di cenare con la moglie Mercedes Berretti e la piccola Benedetta, nella piccola
casetta al primo piano che dava sulla piazza.
Appena fuori, si unì all’amico
professor Filippo Costa e, insieme, cominciarono a passeggiare lungo il porticato
borbonico, diretti verso il bar. Russo era in maglietta e pantaloncini. «Al bar
entrò soltanto Russo per fare una telefonata - scrisse Mario Francese sul “Giornale
di Sicilia” del 21 agosto 1997, ricostruendone gli ultimi minuti di vita -.
Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata…
Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva
lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di
Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della
piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti
all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina
degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò
fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni
una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso
scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due. Appena furono vicini aprirono il fuoco
con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che
aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto
che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si
rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando
alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione
fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il
secondo colpo di grazia. Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga
perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del
colonnello Russo. Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto
di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128,
trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo
il 25 luglio, appunto 26 giorni prima».
In quell’estate di trent’anni fa, il
delitto Russo destò molto scalpore. L’ufficiale dei carabinieri, infatti, era
un noto investigatore al centro di tante delicatissime indagini di mafia. In
quel periodo si trovava in convalescenza e, probabilmente, meditava di lasciare
l’Arma. Ma questo, Totò Riina e Bernardo Provenzano, astri nascenti della mafia
«corleonese», non l’avevano chiaro. Sapevano bene, però, che il colonnello
Russo aveva intuito che Cosa Nostra stava
stendendo i suoi tentacoli sull’affare del secolo, sull’affare «diga Garcia» e
sulle centinaia di miliardi che vi giravano attorno. E decisero di chiudere il
conto con lo scomodo ufficiale dell’Arma. Quella sera a Ficuzza, il gruppo di
fuoco, di cui facevano parte Pino Greco «Scarpuzzedda» e Vincenzo Puccio, era capeggiato
personalmente da Leoluca Bagarella, su mandato del cognato, Totò Riina, e
dell’altro boss corleonese Bernardo Provenzano.
Per il duplice delitto di Ficuzza, in
un primo momento furono erroneamente condannati tre pastori, Salvatore Bonello,
Rosario Mulè e Casimiro Russo, che si era autoaccusato e aveva chiamato in
causa gli altri due. Ma il 29 ottobre 1997, vent’anni dopo, la II sezione
della Corte di Assise di Appello di
Palermo ha condannato definitivamente all’ergastolo Bagarella, Riina e
Provenzano.
Domattina alle 10 per ricordare il 42°
anniversario di quel duplice delitto, nella piazza di Ficuzza, dedicata al
colonnello Russo, si terrà una cerimonia, promossa dall’Arma dei Carabinieri, a
cui parteciperanno gli amministratori comunali di Corleone e diverse
associazioni.
Dietro
l’esecuzione c’era l’affare della Diga Garcia
Non sarebbe stato più semplice per la
mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia
sotto casa a Palermo» e il professor
Costa «a Misilmeri dove abitava?», si chiese il giornalista Mario Francese, che
da quella stessa mafia sarebbe stato assassinato il 26 gennaio 1979. La
risposta la trovò da solo: «No, perché la mafia voleva una esecuzione
spettacolare ed esemplare». Nella grande piazza di Ficuzza, dunque. A due passi
dalla famigerata Corleone, patria di Riina, di Provenzano e di Liggio. Un
messaggio chiaro: chi prova ad intralciare i piani dei «corleonesi» muore! Il
contenuto di alcuni appunti di Russo, trovati sulla sua auto, nella sua
abitazione palermitana e negli uffici della Legione, imprimono immediatamente
alle indagini un indirizzo preciso: la diga Garcia. Fu «questa la pista dei
carabinieri, che si ritrovarono davanti alla formula: mafia-Garcia-sequestro Corleo», scrisse Francese. «Squadra mobile e Criminalpol indagarono, invece,
sulle sue amicizie. Soprattutto una, quella dell’imprenditore di Montevago Rosario
Cascio. Poi: il progetto di un’industria da realizzare in Liberia, alcuni suoi
viaggi a Roma con Cascio, la sua partecipazione in una società, la Rudesci»,
aggiunse il giornalista. Infine, però, sia la polizia che i carabinieri concordarono
su un punto: «Russo è caduto per aver cercato di ripristinare l’ordine ed evitare
soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i remunerativi subappalti ruotanti
intorno ai lavori per la costruzione della diga Garcia (costo: 300 miliardi
circa)». In sostanza, l’ufficiale dell’Arma «avrebbe tentato di non far perdere
al suo amico Rosario Cascio il lavoro che si era legittimamente conquistato
nella diga Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano cacciato con una serie
di violenze. Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla mafia, che
intravide nella sua intromissione un serio pericolo per la realizzazione dei
programmi iniziati nel ’74 con alcuni sequestri-monstre, finalizzati al predominio
assoluto nella zona di Garcia e nella valle del Belice. Un pericolo non infondato,
perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere la
tenacia di Russo, soprattutto nella lotta alla ’Anonima sequestri’».
Infatti, la Lodigiani, colosso
imprenditoriale del Nord, che si era aggiudicato l’appalto plurimiliardario
della diga Garcia, aveva estromesso da alcuni lavori la ditta Cascio,
affidandoli alla «INCO», una società dell’imprenditore Francesco La Barbera di
Monreale, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest’ultimo, il
geometra Giuseppe Modesto. «Ma l’offerta della INCO è spuntata dopo la morte di
Russo e non posso neanche escludere che si tratti di un’offerta perfezionata in
un secondo momento e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per togliere da
ogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici», dichiarò Rosario Cascio. «Alla
luce di queste parole appare verosimile che Russo chiedesse il rispetto della
legalità a chi della legalità è irriducibile nemico, il rispetto della
giustizia per Cascio a chi nell’ingiustizia prolifera». Ma perché i killer della
mafia uccisero anche Costa? Forse perché temevano che Russo gli avesse parlatodell’affare
«diga Garcia. Ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a Costa, chi avrebbe potuto
convincere gli assassini?», fu la conclusione di Francese.
Per l’acutezza della sua indagine giornalistica e per la sua capacità di capire il ruolo dei “corleonesi” dietro l’efferato crimine, la diga Garcia è stata intitolata a Mario Francese.
Per l’acutezza della sua indagine giornalistica e per la sua capacità di capire il ruolo dei “corleonesi” dietro l’efferato crimine, la diga Garcia è stata intitolata a Mario Francese.
Un'agghiacciante serie di delitti a Corleone: Biagio Schillaci (27.7.1975), Giuseppe Zabbia (12.01.1976), Francesco Coniglio (13.02.1976), Giovanni Provenzano (04.05.1976), Rosario Cortimiglia (04.06.1976), Giuseppe Scalisi (09.01.1977), Onofruio Palazzo (09.07.1977), Giovanni Palazzo (23.07.1977)
L’assassinio Russo era stato preceduto
da tre sequestri e da una agghiacciante serie di delitti. A Roccamena, l’8
settembre 1974, fu rapito il giovane enologo monrealese Franco Madonia, rilasciato
il 15 aprile 1975, dopo il pagamento di un riscatto da un miliardo di lire da
parte dello zio "don" Peppino Garda. Il 1° luglio 1975 fu sequestrato
il docente universitario Nicola Campisi, che sarebbe stato rilasciato l’8
agosto, dopo il pagamento di settanta milioni di riscatto. Infine, il 17 luglio,
la "madre" di tutti i sequestri:
quello di Luigi Corleo, il re delle esattorie,
che fu misteriosamente soppresso. Ai sequestri fece seguito una catena
impressionante di delitti, iniziati a Corleone con l’omicidio di Biagio
Schillaci (27 luglio 1975). Qualche giorno dopo, sempre a Corleone, a subire un
attentato fu Leoluca Grizzaffi,
fratello di Giovanni, figlio di Caterina Riina, sorella di "don"
Totò, allora fedele luogotenente di Luciano Liggio, che aveva sposato segretamente
la maestrina corleonese Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca. Un
"affronto" al clan Liggio, dunque, che provocò la rottura degli
equilibri mafiosi. Infatti, l’attentato a Grizzaffi fu
seguito il 12 gennaio 1976
dall’omicidio dell’autotrasportatore Giuseppe Zabbia. Il 13 febbraio fu ucciso,
invece, Francesco Coniglio, impresario di pompe funebri, poi Giovanni Provenzano
(4 maggio), Rosario Cortimiglia (4 giugno), il roccamenese Giuseppe Alduino (29
agosto), Giuseppe Scalisi (9 gennaio 1977). Il 9 luglio scomparve Onofrio
Palazzo, il 23 luglio si ebbe la "pubblica esecuzione" di Giovanni
Palazzo. Quindi la faida si spostò a
Roccamena, da dove fuggì, il 29 luglio,
dopo essere scampato ad un attentato, il cavatore Rosario Napoli, in rapporti
con la Lodigiani. Il 30 luglio fu il turno di Giuseppe Artale, guardiano
dell’impresa Paltrineri, assassinato sul ponte San Lorenzo. Il 10 agosto poi,
il tiro dei killer si sposta a Mezzojuso, dove viene freddato Salvatore La
Gattuta e, infine, la spirale si chiude a Ficuzza, con la duplice esecuzione del
colonnello Giuseppe Russo e
dell’insegnante Costa.
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