Il carro di Santa Rosalia |
di Rosario Giuè
Quest’anno il Festino ci ha invitato a
guardare a Santa Rosalia, questa figura simbolica, nel segno dell’inquietudine.
Rosalia donna inquieta per il dolore del mondo, per le ferite della sua città.
Ma i cattolici di Palermo oggi sono inquieti? Vivono l’inquietudine del nostro
tempo fino ad assumerne la fatica? Secondo Michele Serra (“L’amaca” del 9
luglio) in Italia per la maggioranza l’essere cattolici è «un omaggio alla
tradizione, un’abitudine sociale, un confort identitario». Solo per una
«valorosa e nutrita minoranza» di uomini e donne la fede cristiana è
«testimonianza di carità». È difficile negare che anche a Palermo l’essere
cattolici per la maggioranza non sia qualcosa di più di un omaggio alla
tradizione. Segno ne è che spesso, non raramente, le celebrazioni dei
sacramenti sono vissute come riti di passaggio sociale, senza il sorgere nella
coscienza di alcuna inquietudine, se non quella di fare bella figura. L’essere
cattolici, così, è qualcosa da consumare o da “pretendere”.
Questo tipo di cattolicesimo funzionava nel passato ogni volta che le
gerarchie volevano difendere l’istituzione ecclesiastica dal nemico: ora la
modernità, ora il comunismo. Ma quella forma di cattolicesimo, ogni volta che
doveva difendere l’uomo e la donna che non avevano tessere di appartenenza, ha
sempre fallito. Ha fallito al tempo del fascismo appoggiandolo, ha mancato
nella lotta di liberazione dal potere mafioso con l’indifferenza.
E fallisce anche oggi con la sua assenza, anzi con il suo silenzio-assenso,
davanti al rischio di un neo-fascismo. Fallisce con il silenzio-assenso quando
la campagna contro i “diversi” e le libertà delle donne è diventata programma
di partito al governo. Fallisce con la sua indifferenza davanti
all’indebolimento della Costituzione democratica e dello Stato liberale di
diritto. In queste occasioni quel cattolicesimo ha mostrato e mostra la sua
inconsistenza, la sua non credibilità agli occhi dei giovani e delle ragazze
più sensibili.
Quel cattolicesimo maggioritario oggi non è nemmeno più buono per
“difendere” il Papa. Anzi, un Papa che s’inquieta per le sorti dell’uomo e
della donna divenuti gli «scarti» della società e della politica, a quel
cattolicesimo dà fastidio. Un Papa che afferma che la Chiesa a un ferito non
deve chiedere «se ha il colesterolo e gli zuccheri alti» e che, invece, deve
chinarsi su di lui a «curare le ferite», disturba.
Ma il problema sollevato da Serra non viene tanto, credo, da quanti usano
il cattolicesimo come religione civile. Il problema è prima di tutto della e
nella comunità ecclesiale che si lascia usare, nella speranza che “qualcosa
rimarrà”. Questo è il nostro peccato. È il peccato di una «Chiesa stanca»
(Carlo Maria Martini).
In questo contesto, se un parroco inquieto ci mette la faccia e, per
esempio, nell’omelia commenta il Vangelo parlando di com-passione, di cura, di
responsabilità profetica per i poveri, per i diversi, per gli stranieri, può
accadere che molti di quei cattolici “civili” si sentano disturbati perché quel
prete «fa politica». Preferiscono la narrazione del politico con il rosario in
mano o il parroco che ripete una dottrina neutrale e fa il prete in sacrestia.
Il rischio delle comunità ecclesiali, in Italia e a Palermo, è quello di limitarsi
a seppellire i residui culturali della cristianità, dimenticando il detto di
Gesù: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Luca 8,21).
Forse occorrerà dedicare più tempo ed energie nel compito faticoso di
formare le coscienze al rischio evangelico, senza contentarsi di alimentare il
tranquillo devozionalismo che, certo, fa numero. Del resto Rosalia non era una
“legione”, era una persona. L’inquietudine di Rosalia, rappresentata oggi dalla
capitana Carola, è destinata a restare un’inquietudine di minoranza? Ma ciò non
è necessariamente un male, forse è un’opportunità a partire dalla quale
guardare con occhi lucidi il futuro dell’essere Chiesa nel mondo attuale.
La Repubblica Palermo, 16 luglio 2019
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