Boris Giuliano |
Alle spalle, gli è scivolato alle spalle perché solo così avrebbe potuto
ucciderlo. E tremava, tremava mentre sparava a tradimento per sette volte. Il
più paranoico dei sicari di Corleone e il poliziotto più amato di Palermo, una
mattina di luglio di quarant’anni fa. La mattina che ha aperto il romanzo nero
della Sicilia.
Un bar della città nuova davanti alle palme di Villa Sperlinga, il sudore
dell’afa e quello trasportato della paura, un caffè e il primo sbirro italiano
che aveva avuto l’onore di frequentare il quartier generale del Federal
bureau of investigation di Quantico era a terra. L’altro, Luchino
Bagarella, era già un fantasma.
Palermo, 21 luglio 1979, la mafia uccide il capo della Mobile Boris
Giuliano. Stava indagando sui traffici di droga dei Bontate e degli Inzerillo,
sui Corleonesi a un passo dalla conquista di Cosa Nostra, sui legami
dell’aristocrazia criminale mondiale con il banchiere Michele Sindona. Dieci
giorni prima a Milano avevano fatto fuori l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese
che era penetrato nei misteri finanziari dell’impero di don Michele. Poi è
toccata allo "sceriffo buono".
Quarant’anni fa, redazione del quotidiano L’Ora , il giornale
dell’altra Palermo. La radio della polizia vomita voci che si accavallano, sempre
più alte, sempre più concitate. C’è stato un omicidio in via Francesco Paolo Di
Blasi, nel bar Lux. Nessuno sa ancora chi sia la vittima. Ma nello stanzone
della cronaca dell’ Ora il viso di Gianni Lo Monaco diventa bianco come uno
straccio. Lui, vecchio e informatissimo cronista giudiziario, sa bene chi abita
da quelle parti. Ha già capito chi è il morto.
L’edizione del pomeriggio avrà 15 pagine sull’agguato e nessuna firma
sotto gli articoli. I nomi dei cronisti (che piangono davanti al cadavere del
commissario) sono tutti all’interno di un box, tutti che sanno tutto e niente,
nessuno che vuole dare la sensazione all’esterno di conoscere un dettaglio in
più o un dettaglio in meno, i giornalisti che si stringono uno accanto
all’altro per salvarsi la pelle, un pool prima del famoso pool dell’ufficio
istruzione. È una cautela che i redattori dell’Ora adotteranno anche nei mesi
successivi, delitto eccellente dopo delitto eccellente nel mattatoio Palermo.
Chi voleva morto Boris Giuliano? Lo volevano morto quelli della vecchia
guardia e quelli di Corleone, lo volevano morto gli innominabili padrini della
borghesia mafiosa palermitana e i malacarne di Corso dei Mille che da
rapinatori erano stati promossi picciotti.
Raffinatissimo investigatore. Giuliano quasi dieci anni prima — era a capo
della Omicidi — aveva esplorato i territori infidi intorno alla scomparsa di
Mauro De Mauro, il giornalista rapito una sera di fine estate del ‘70 e mai più
ritrovato. Aveva puntato gli occhi sulle esattorie dei potenti cugini di Salemi
Nino e Ignazio Salvo, quelli che il giudice Falcone avrebbe incastrato al
maxiprocesso.
Nomi che si intrecciano da un’epoca palermitana all’altra, nomi che
ritornano sempre. Ma in quel luglio del 1979 il commissario capo aveva
scoperto troppo e troppo presto. Una valigia con 650 mila dollari sequestrata
all’aeroporto di Punta Raisi l’aveva collegata a movimenti di denaro sospetto,
poi la domanda sbagliata al direttore di una banca. Indagini ravvicinate e una
visione ampia del fenomeno criminale in Italia, poliziotto all’antica ma
al contempo modernissimo, una miscela esplosiva in quella Palermo dove in molti
si voltavano dall’altra parte.
Una delle ultime missioni di Boris Giuliano nell’estate siciliana del ‘79
fu una visita a Leonardo Sciascia a Racalmuto, una chiacchierata con lo
scrittore. Qualche giorno prima da Sciascia erano andati due siculo-americani che stavano preparando — dopo il falso sequestro — la fuga di Michele
Sindona da New York verso la Sicilia. Il commissario era curioso. Non ebbe
tempo di capire di più.
Quella mattina di luglio lasciò moglie e tre figli (il più grande,
Alessandro, oggi è questore di Napoli) e la polizia italiana perse uno dei suoi
uomini migliori. A sostituirlo come capo della Mobile fu scelto Giuseppe
Impallomeni, tessera numero 2213 della loggia P2. Il nuovo questore era
Giuseppe Nicolicchia, uno che aveva fatto domanda di affiliazione in una
succursale sudamericana dell’allegra compagnia di Gelli. Tutto a posto.
Le indagini sull’omicidio di Giuliano furono seguite dal giudice Paolo
Borsellino. Una coda dell’inchiesta fu ripresa dal capitano Emanuele Basile, il
comandante dei carabinieri di Monreale. Meno di un anno dopo — la notte fra il
3 e il 4 maggio 1980 — ucciso anche lui. Da quel momento Palermo è diventata un
cimitero. Una lapide in ogni strada, una croce a ogni angolo. Fino all’atto
finale di Capaci e di via D’Amelio.
La Repubblica, 21 luglio 2019
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