Norman Zarcone |
Egregio ministro Bussetti,
dalle mie parti circola ancora un vecchio proverbio di natura popolare:
“Domandare è lecito, rispondere è cortesia”. Ora capisco bene che non viviamo
più nel territorio ormai sconosciuto della ‘cortesia’, ma su quello della
liceità potremmo incontrarci, qualora lei si decidesse. Non dovrebbero esservi
dubbi che si tratti del ‘posto migliore’. E fin quando agirò entro i confini
del lecito non smetterò mai di “infastidirla” con le mie domande, con la mia
richiesta di confronto. Ha riflettuto su una riforma dell’università che contempli
i dettati dell’articolo 416 bis del codice penale per i casi conclamati di
baronaggio (magari d’intesa col dicastero della Giustizia)? Su quella che io
chiamo “associazione mafiosa di stampo accademico”? La similitudine fra il
rispetto che la gente porta a “zu’ Pinuzzu” o “zu’ Tano” e quella che i giovani
portano ai professori universitari, calza eccome.
Questo rispetto nasce dal
potere associativo mafioso, dalla forza coercitiva che il gruppo esprime,
dall’intimidazione, dall’omertà, dagli obiettivi comuni a salvaguardia degli
scopi del nucleo associativo. Vi sono differenze culturali, è ovvio, i primi
sparano sventagliate di kalashnikov (o ne sono mandanti), i secondi citano
Orazio e Wittgenstein, però, mungi-mungi, stringi-stringi, l’obiettivo è quello
di ottenere risultati per gli appartenenti alla propria famiglia e per se
stessi. Un vincolo associativo che punta molto sull’intimidazione, la
familiarità, la coesione territoriale, l’obbedienza e il silenzio omertoso su
quanto avviene all’interno di quella inaffondabile struttura di potere che
“mira ad inserirsi con metodi illeciti in attività di per sé lecite, per
ottenere un vero e proprio controllo sul territorio”.
Tutte condizioni poste nell’articolo 416 bis del Codice penale: se vuole lo
rileggiamo insieme.
Gli ingressi e le progressioni di carriera, ad esempio, a partire da un
semplice dottorato (in special modo con borsa), sono gestiti dai baroni -
rappresentazione tangibile del potere inviolabile, dell’autocrazia che si
esprime con inganno e spocchia - i quali sono espressione di dipartimenti (la
famiglia) e quantunque l’attività sia “di per sé lecita”, con tanto di concorso
pubblico bandito e pubblicato, vi è un “metodo illecito” che determina e guida
le carriere, gli ingressi, le nomine, le graduatorie. Il territorio è
controllato in piena regola, ne va della sopravvivenza del nucleo familiare, si
intimoriscono gli altri partecipanti poiché indesiderati e non “appartenenti” a
quella “famiglia”. Il “vincolo associativo” è ineludibile e imprescindibile. E
sono frequenti, inoltre, gli scambi fra “dipartimenti-famiglie”: io mi prendo
uno di Pisa e Pisa si prende uno di Messina. Famiglia aiuta famiglia, tanto il
pisano tornerà dopo poco tempo a Pisa e il messinese a Messina. L’escamotage si
trova sempre, l’importante è salvaguardare il buon nome delle “famiglie”,
quelle regole non scritte che però tutti conoscono.
Gli inquirenti in molti casi hanno parlato di sistema simile alla mafia.
Badi bene, ministro: non è Claudio Zarcone a sparare a salve le sue sentenze
visionarie, ottenebrate dal pur legittimo sospetto, dalla rabbia, dalla
devastazione interiore. Sono gli stessi magistrati a paragonare il sistema
delle baronie alla mafia: “In Italia esisteva una cupola di professori che
decideva commissioni e vincitori dei concorsi della disciplina” (“Repubblica.
it” - pagina web di Bari - 10 febbraio del 2014).
A poche ore dalla morte di Norman, ho parlato di “omicidio di Stato”. Si è
nei fatti “assassinato” un ragazzo brillante: giornalista, musicista, filosofo,
che d’estate – e questa è storia, non fantacalcio – faceva il bagnino in un
circolo nautico per apprendere l’etica del lavoro e
della fatica fisica. Altro che “choosy”, “bamboccione” o “sfigato”. Norman non
era un depresso, tutt’altro. Il suo cervello al fulmicotone era sempre in
ebollizione e la depressione non sapeva proprio cosa fosse: la sua era
una concezione allegra e briosa della vita. Gli amici lo chiamavano
“Zuzzurellone” e così si è firmato nella lettera indirizzata ai suoi amici,
scritta poche ore prima che mettesse in atto la sua drammatica decisione. Una
decisione, comunque, maturata e metabolizzata nel tempo. Una dolorosa
scelta filosofica oserei dire (purtroppo). Mio figlio nell’ultimo periodo
era incazzato, questo è l’aggettivo giusto. Il suicidio di Norman
scaturisce dalla rabbia, dall’impossibilità di poter cambiare le cose e il suo
gesto va catalogato come altruistico, perché parrebbe che i morti non godano di
benefici terreni. Mio figlio con le sue due lauree con lode, il dottorato senza
borsa pressoché concluso (terzo e ultimo anno) e il tesserino di giornalista
pubblicista in tasca, non si sentiva un laureato di serie B, è semmai dentro
quel dottorato che si sentiva di serie B: emarginato, non considerato, isolato
come una metastasi da estirpare. Quel senso di isolamento lo fece sentire di
serie B a soli ventisette anni. È dentro quel dottorato che monta a dismisura
la sua rabbia.
Una valanga mi ha sepolto, di fatto. Ha sepolto la mia intera famiglia. Avevo
tanti progetti su mio figlio, con mio figlio, con la mia famiglia, ormai
distrutta. Progetti di una famiglia normale, con alti e bassi, ma in fondo
normale. Norman non chiedeva niente di speciale, soltanto una possibilità alla
pari degli altri. Gli è stata negata, lo creda, e tutta la mia
famiglia è diventata una sorta di palcoscenico del dolore. Continuo,
martellante. Un palcoscenico di tristezza che con reazioni individuali diverse,
ci proietta in avanti come maschere senza più un’identità collettiva, senza
sguardi alla gioia, tutti imprigionati in un costante sogno surreale vissuto in
stato di veglia. Non siamo ricchi, ma non abbiamo mai patito la fame,
eppure Norman adorava fare il bagnino d’estate per
guadagnarsi qualche euro in più da spendere in libri, una pizza con la sua
ragazza e poi quel che rimaneva lo versava in un libretto di risparmio postale:
ancora oggi esiste quel libretto postale con i risparmi di mio figlio. Il
Comune di Palermo gli ha intestato uno spazio urbano, la Rotonda Norman
Zarcone e ha indetto in suo nome la “Giornata del Merito”, mentre
l’Ordine dei Giornalisti (Norman, ripeto, era anche giornalista) ha intitolato
due borse di studio in sua memoria; a lui sono stati dedicati libri, canzoni e
tesi di laurea: basta cliccare su Google per avere contezza.
«… chi raggiunge lo status di docente universitario non immagina
neanche lontanamente che un’evoluzione politica possa avere un
effetto sulla sua carriera: si sente assolutamente intoccabile»
Michel Houellebecq
Ministro Bussetti, guardi che il silenzio non può pagare in eterno. Ho
sempre evitato di buttarla sull’emotività e sulla lacrimuccia, mantenendo un
atteggiamento critico e razionale malgrado l’argomento del nostro discutere (in
vero, più un monologo da parte mia) contenga tutti gli elementi della
suggestione emotiva, della storia strappalacrime. Provvederò subito, visto che
le mie parole concrete non hanno scalfito il suo interesse.
Mio figlio, Signori della Corte, ministri, legislatori, magistrati, papi e
re, non è stato un incidente di percorso in questa vita terrena. Norman è stato
ed è ancora il mio amore, l’amore mio, nato da un atto d’amore. Non poterlo più
toccare, annusare il suo odore, vederlo leggere, udire la sua voce, è
l’accelerazione della mia discesa agli Inferi. Il mio Inferno del quotidiano.
Pensare a ciò che gli sarà passato per la testa, qualche secondo
prima del “volo” (paura? pentimento? ricerca finale di Dio? o cos’altro?) mi
satura di tanta, tale angoscia, da farmi desiderare la morte immediatamente.
Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero, o per chi. E quale la sua
ultima immagine visibile del mondo degli uomini: uno squarcio di cielo grigio,
mentre i suoi teneri occhi si andavano chiudendo per sempre? Un lembo di duro
selciato? Le gambe della guardia giurata che gli ha dato l’ultimo conforto? E
cosa avrà udito? Le urla della gente accorsa? Il loro brusio agitato mentre
qualcuno gridava, «chiamate un’autoambulanza»?
Oppure gli sarà passato tutto davanti, prima di spegnersi, senza suoni,
colori, sensazioni? E la sua giovane vita, gli sarà passata davanti agli occhi,
nella mente?
Il suo ultimo istante, come e in che modo sarà stato il suo ultimo istante
(doloroso? impaurito? liberatorio?) prima che il tempo eterno della morte
ponesse il suo sigillo ancestrale a quella giovane, incolpevole vita?
Avrà avuto la chiara consapevolezza finale di cosa fosse accaduto, stesse
accadendo? Avrà desiderato di tornare indietro nella sua decisione ribelle,
premendo un bottone ideale, sperando nell’intervento di una forza divina? Avrà
chiamato col nome di Dio, quella forza divina? Lo avrà riconosciuto come Dio
prima di attraversare quella linea tanto temuta dagli uomini?
O, al contrario, ribelle fino all’ultimo, deciso nella sua denuncia
massima, ha accettato liberamente di entrare in quel sogno perpetuo, fatale,
che noi chiamiamo morte? Norman era ancora vivo quando la guardia giurata gli
diede l’ultimo conforto!
Ecco, Signori della Corte, Eminenze grigie della nostra politica, perché
sono anch’io colpevole, perché vivo già all’Inferno. Perché non potrò mai
rispondere a queste domande, perché potrò soltanto immaginare il suo ultimo
respiro innocente, dalla mia dimensione colpevole. Condannatemi per non essere
stato in grado di capire; di fermare un cammino verso la tenebra di
quell’istante fatale precluso alla comprensione degli uomini. Ma ciò non toglie
che io condanni voi, colpevoli di ignavia e silenzi istituzionali complici.
Leggo spesso su un social media, di amici che festeggiano i propri figli,
la loro "vita". Io non potrò mai festeggiare un cazzo, potrò
solamente morire dannato. Non ho nemmeno la possibilità di poter scambiare la
mia vita con quella di mio figlio: cazzo, grido ancora più forte!
Ora mi dica, ministro Bussetti: cosa intende fare?
Claudio Zarcone
335 6669171
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