di Francesco Patanè
Così parlava uno degli arrestati, infastidito dalle
domande di Salvo Palazzolo
PALERMO — Due autorevoli esponenti del clan Inzerillo erano parecchio
infastiditi per le domande che il giornalista di Repubblica Salvo
Palazzolo aveva “osato” fare al boss Francesco Inzerillo. E meditavano una
vendetta esemplare: «Certo due colpi di mazzuolo gli avrei dati — diceva
Benedetto Gabriele Militello, uno degli arrestati dell’ultimo blitz fra Palermo
e New York, che non sospettava di essere intercettato — Due colpi di legno
glieli avrei dati. Tanto che mi può fare? Che ci possono fare? … Due colpi di
legno. Ma per l’azione. Non è perché siete venuti, avete fatto … ma tu casomai
… e scrive per la Repubblica”.
L’incursione era avvenuta il giorno prima di quella discussione fra
Militello e Tommaso Inzerillo, il 5 dicembre. Salvo Palazzolo era andato nel
negozio di Francesco Inzerillo, nel quartiere di Passo di Rigano, per
chiedergli del perché delle visite del capomafia Settimo Mineo, l’anziano della
ricostituita Cupola di Cosa nostra. Visite emerse nel corso del blitz che aveva
portato Mineo in carcere.
Francesco Inzerillo si era trincerato dietro una serie di «non so nulla ».
Palazzolo lo aveva incalzato con le domande. Un affronto per il clan. Anche perché
dopo l’incursione a Passo di Rigano, il cronista era andato anche nel quartiere
di Mineo, per altre domande. Pure queste avevano infastidito i boss.
«Ma lei che cosa ne pensa del signor Settimo Mineo? — Militello ripeteva
le domande di Palazzolo — Che cosa ne penso? Che crasto che sei».
“Crasto”, espressione dialettale sicula che indica disprezzo. “Cornuto”.
I boss di Passo di Rigano erano parecchio attenti alle notizie su di loro.
Tommaso Inzerillo seguiva soprattutto l’ultima inchiesta di Palazzolo, che a
maggio aveva ripercorso, sull’edizione palermitana di Repubblica, il
grande mistero della famiglia, quello sul tesoro accumulato con il traffico
internazionale di droga. Un tesoro non ancora sequestrato. «Ieri, ci hanno
messo di nuovo nel giornale — diceva Tommaso Inzerillo, con aria infastidita —
però come parlano, anzi come parlano ieri non hanno parlato mai, diciamo ».
Palazzolo era ripartito dalle indagini di Falcone sugli italo-americani, nel
1980, lì aveva ritrovato nomi ancora di grande attualità. Un altro sgarbo
inaccettabile per Inzerillo: «Allora questo signore Falcone ha iniziato
quaranta anni fa, ha visto allora dieci miliardi di assegni, Inzerillo,
Spatola, Gambino». E poi, di seguito, un altro riferimento all’inchiesta di
Palazzolo: «Dice ma questi… E ora non si persuade, dice, ora noi siamo
diventati i re di Palermo ».
Lo scorso dicembre, dopo l’intercettazione sui “colpi di mazzuolo”, la
procura aveva subito informato il prefetto Antonella De Miro, che sentito il
comitato provinciale ordine e sicurezza aveva disposto il rafforzamento della
vigilanza attorno al giornalista. “L’esposizione” di Palazzolo è già da tempo
all’attenzione del comitato: l’ultima minaccia, neanche tanto velata, l’aveva
lanciata un frate carmelitano che aveva celebrato la messa di trigesimo per un
capomafia condannato per l’omicidio di un carabiniere. «Ma i mafiosi non sono
scomunicati?», aveva chiesto Palazzolo. E padre Mario Frittitta aveva risposto
con tono di sfida: «Stia attento a come parla. Perché il Signore queste cose le
fa pagare». Al cronista minacciato la solidarietà di Fnsi, Assostampa Sicilia e
Unione Cronisti.
La Repubblica, 18.7.19
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