di Gaetano Savatteri
Le macerie fumanti del Belice, le prime stragi di mafia
la piaga dell’emigrazione, il matrimonio riparatore di Franca Viola: cos’era
l’Isola nel 1969
Il balcone della casa di mia nonna si
affacciava sulla piazza di Racalmuto. Era notte di luna. Era la notte della
luna. A noi cugini ci avevano tenuto svegli, perché era una notte storica e ce
la saremmo ricordata per sempre. La tv in bianco e nero nel soggiorno di nonna,
con il centrino ricamato e la gondola di plastica, rimandava le immagini
tremanti che arrivavano dal mare della Tranquillità. Mio zio scuoteva la testa:
imbroglio c’è, diceva, non può essere vero. Non capisci niente, ribatteva suo
cognato, quelli americani sono, hanno teste grandi quanto un tumolo, hanno
vinto la guerra e ora sono sulla luna, e tu sei sempre qui a dire minchiate.
Non so chi avesse ragione. Mi affacciavo al balcone, c’era caldo, le
imposte erano aperte. Guardavo la luna e pensavo che forse diceva giusto mio
zio, non poteva essere vero. Pensavo a quell’uomo goffo nella sua tuta che si
muoveva lento e leggero sulla luna, ma da quaggiù non riuscivo a vederlo. Mi
formicolavano gli occhi a forza di fissare la luce bianca: mia madre mi aveva
già raccontato, in forma di favola, la storia di Ciaula, il caruso di
miniera che viveva nel buio della zolfara e una notte, uscendo dal pozzo,
aveva scoperto la luna.
Abbassavo gli occhi sulla piazza. C’erano gruppi scuri di uomini vestiti di
nero, nere le coppole in testa, i segni di lutti recenti sulle giacche e sulla
camicie bianche. Fumavano, sputavano a terra, si affacciavano nella pozza di
luce del bar da dove proveniva il barbaglio della televisione accesa:
guardavano la luna, scuotevano la testa, ricominciavano a passeggiare, i volti
cotti dal sole impassibili, la fronte corrucciata nei pensieri delle mandorle
da raccogliere, del grano da vendere, del lavoro che mancava, dei parenti
emigrati.
Forse aveva ragione l’altro mio zio: gli americani portavano vestiti
colorati – li vedevo gli italoamericani che tornavano d’estate in paese erano
alti, biondi, ridevano e avevano teste grandi quanto un tumolo, loro sì che
potevano andare sulla luna. I siciliani erano piccoli, neri, parlavano un
dialetto stretto, erano divorati dai guai di ogni giorno, non avrebbero mai
potuto arrivare fino alla luna.
Al mio paese solo una persona pensava alla luna. Non mi ricordo come si
chiamasse, ma tutti dicevano che aveva la malaluna. E nelle notti come questa,
di plenilunio, se ne restava a fumare fino all’alba su un gradino della piazza.
Mi faceva paura. Mio padre mi rassicurava, non è lupo mannaro, è un bravo
cristiano, ma è malato di luna. Non mi persuadeva: passavo alla larga a vederlo
con gli occhi spiritati, le maniche della camicia arrotolate, mentre fumava
Nazionali parlando da solo. O forse parlava alla luna. L’uomo era sulla
luna, ma c’era una Sicilia che restava a terra. Letteralmente. Che quel 1969
presentava le ferite ancora aperte de i paesi del Belice abbattuti dal
terremoto. Case sbriciolate, morti, feriti e intere contrade svuotate dalla
gente che scappava via. Il terremoto del Belice aveva svelato all’Italia intera
– fu quello il primo "terremoto televisivo", con i servizi di Sergio
Zavoli e degli altri inviati della Rai – l’esistenza di paesi costruiti con
pietre di tufo, camere ammobiliate con i letti di ferro e i vasi da notte
nel comodino, animali stecchiti dalla fame e dal freddo rimasti attaccati
all’anello della stalla che era anche la casa dove vivevano in quattro, in
cinque, in otto. Bambini e bambine imbacuccati in cappotti più grandi di loro,
con le scarpe sformate dei fratelli maggiori di misure sbagliate. Il terremoto
li aveva resi più poveri, ma per l’Italia che aveva creduto nel boom economico,
nella minigonna, nei juke box degli stabilimenti estivi, il Belice rappresentò
un rimorso di coscienza che, infatti, venne ben presto rimosso e
abbandonato a se stesso nei lunghi decenni di una ricostruzione accidentata,
spesso sbagliata.
L’uomo sapeva arrivare sulla luna, ma nessuno per molti giorni arrivò nel
Belice a portare soccorso, a smuovere macerie, a estrarre i corpi di chi ancora
viveva e si lamentava sotto le macerie. Da quei paesi distrutti, come da tutta
la Sicilia avevano fatto e continuarono a fare, partirono in decine, centinai
di migliaia: in Belgio, in Germania, a Torino. Ognuno a cercare la propria
luna. E dell’epopea stracciona del viaggio al nord con la valigia di cartone
legata con lo spago non rimase niente, non era certo un piccolo passo per
l’uomo, un grande passo per l’umanità. Era solo la Sicilia che si lasciava
dietro il coraggio di Franca Viola la ragazza di Alcamo determinata a non
accettare il sequestro a scopo matrimonio, il grottesco di "Sedotta e
abbandonata", di "Divorzio all’italiana".
Un mondo senza luna, apparentemente fermo e immobile. Ma tutto si muoveva.
Ferocemente. La Sicilia della prima guerra di mafia, delle Giuliette al
tritolo, dell’arrembante famiglia corleonese, del sacco di Palermo, della
lupara in campagna e del mitra in città. Quanto poteva essere lontana Palermo,
e la Sicilia intera, dalla luna? Più lontana che altri luoghi dell’Occidente.
Affacciato al balcone della casa di mia nonna, sulla piazza di Racalmuto,
non sapevo tutto questo. Ma sentivo in qualche modo che la Sicilia era sul lato
oscuro di questo mondo. E pensavo che forse mister Armstrong da lassù, dal mare
della Tranquillità, riusciva a vedere gli oceani, i grandi laghi, la forma dei
continenti, e magari anche i grattacieli di New York, chissà perfino la Tour
Eiffel puntata in alto, di sicuro intravedeva il cupolone di San Pietro e il
ponte di Brooklyn. Ma poteva riuscire a vedere questo mio paese, con le luci
fioche della piazza, il bagliore del bar Paolino? Poteva vedere il buio delle
campagne, delle trazzere bianche di polvere, la pietra brulla e arida del
latifondo? Non credo che mister Armstrong riuscisse a vedermi mentre mi
affacciavo al balcone di nonna, ma dalla luna non si vedeva neanche quest’isola
triangolare, al centro del Mediterraneo, con le sue città, i suoi paesi, il suo
tempo lento.
L’orologio della Matrice suonò l’ora. Era il tocco della notte. Risuonò nella
piazza ormai vuota, franò sulle case buie di sonno. Chissà se sulla luna l’ora
della storia era la stessa che batteva nei campanili della Sicilia. Mia nonna
spense la tv: si è fatto tardi, disse, è ora di andare a dormire. E chiuse
fuori la luna.
La Repubblica Palermo, 21 luglio 2019
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