martedì, luglio 09, 2019

Il volto segreto del filosofo. C’è speranza: così Sartre cambiò idea


di Massimo Recalcati
L’ultima testimonianza, un’intervista ora ripubblicata, ribalta l’immagine dell’esistenzialismo. Meno angoscia e più apertura a un principio di fratellanza fra gli uomini
L’ultima intervista dal carattere testamentario rilasciata da Sartre al suo segretario personale Benny Lévy poco prima della sua morte avvenuta il 15 aprile del 1980, suscitò un profondo scandalo tra i suoi amici più intimi a cominciare da Simone de Beauvoir. Come era possibile che il filosofo che aveva sostenuto che "l’inferno sono gli Altri", che aveva messo in rilievo la natura necessariamente conflittuale delle relazioni umane, che aveva irriso la morale borghese della solidarietà e dell’Uomo (basti ricordare il giudizio tagliente sul romanzo di Camus, La pestereo di diffondere una "morale da crocerossina"), in quella intervista riabilitasse sentimenti come la speranza, la reciprocità, la fratellanza, la condivisione? Non era forse il segno inequivocabile del decadimento della sua lucidità o, peggio ancora, dell’azione subdolamente manipolatoria del suo intervistatore che non nascondeva la propria appartenenza alla cultura ebraica?

Oggi questa intervista è disponibile al lettore italiano per le edizioni Mimesis col titolo La speranza oggi , una traduzione efficace e una esauriente introduzione di Maria Russo. La domanda che questa conversazione sollevò al tempo della sua prima pubblicazione resta centrale: come è possibile che il filosofo dell’angoscia e della "condanna alla libertà", il filosofo che aveva colpito al cuore la retorica umanistica dei buoni sentimenti e la sua malafede fondamentale, sostenga adesso che «il rapporto di fraternità è il rapporto primario tra gli esseri umani».
Da dove viene questo cambio di rotta? Si tratta di una abiura? Viene forse dalla paura della morte imminente che travolge il filosofo ormai cieco e anziano? Quello che più colpisce in questa intervista è l’insistenza di Sartre sulla parola "speranza" che non appartiene propriamente al suo lessico filosofico. Questa parola – ecco lo scandalo! – viene piuttosto dal logos biblico. È questo lo spartiacque rispetto all’ateismo convinto del filosofo? Si tratta di un avvicinamento – a fine corsa – verso il sentimento religioso? In realtà nessuna retorica religiosa accompagna l’uso sartriano della parola "speranza". Piuttosto questa parola coincide con l’atto, la scelta, l’azione, il progetto. Come dire che non può esistere azione umana che non porti con sé una speranza, un’apertura, una trascendenza. Non si tratta di cancellare il pessimismo ontologico della sua filosofia come la conosciamo attraverso L’essere e il nulla , ma di mostrare che l’inaggirabilità dello scacco, della caduta, che il carattere ingiustificato, "di troppo", dell’esistenza non può cancellare la speranza della trascendenza ma la trascendenza della speranza. Non si tratta infatti di autorizzare la speranza come "illusione lirica" o "religiosa", ma di pensarla insieme, profondamente unita alla disperazione.
Ed è proprio in questa congiuntura che io ritrovo tutto Sartre. Non il tradimento di Sartre, ma veramente il più essenziale di Sartre. Se la realtà umana è un "fallimento necessario", se è l’impossibilità di raggiungere un "fine assoluto", nondimeno questa impossibilità non può cancellare la speranza della sua realizzazione. È una tensione che anima tutta la filosofia di Sartre. Non si tratta di pensare religiosamente la speranza come liberazione dalla necessità dello scacco, ma di non lasciare che lo scacco sia l’ultima parola sull’esistenza. Di qui la distinzione tra una "morale della speranza" e quello "spirito di serietà" con il quale già il Sartre esistenzialista definisce l’illusione e la menzogna borghese dell’esistenza che crede di avere il "diritto di esistere". Questa "morale della speranza" resta l’ultima parola che Sartre, prima di congedarsi dalla vita, ci lascia in eredità: è possibile che il desiderio dell’uomo non sia solo aspirato dal desiderio (impossibile) di essere Dio, di esserecausa sui , ma sia impegnato nella costruzione di una comunità nuova, di una comunità ispirata alla fratellanza. Per l’ultimissimo Sartre si deve abbandonare una teleologia della totalità nel nome di una morale fondata su un nuovo desiderio di comunità. Non inseguire una totalizzazione impossibile, ma dare corpo al principio di speranza in una comunità più solidale e giusta. La tensione politica si annoda qui a quella morale: «Bisogna immaginare un corpo di persone che lottano insieme». Il fine ultimo della storia che il marxismo eredita dall’hegelismo è superato non da una prospettiva nichilistica, ma dall’introduzione di un "altro fine", una sorta di "obbligo" che ci vincola all’esistenza dell’Altro. Si tratta di una dipendenza che non esclude affatto la libertà. Piuttosto bisogna ripensare il carattere primario della fratellanza. È il passo levinassiano dell’ultimissimo Sartre. Dove, evidentemente, la fratellanza non contiene nessuna omogeneità, nessuna eguaglianza. Tuttavia, l’incontro con il volto dell’Altro non solleva più solo l’angoscia medusizzante dell’alienazione e del conflitto infernale, ma una prossimità che mi concerne e mi impegna: «Ciò che serve per una morale è ampliare l’idea di fraternità fino a che essa diventi il rapporto unico e evidente tra tutti gli uomini». È questo che sospinge Sartre verso Levinas e verso l’ebraismo messianico, ovvero l’utopia di un regno che esclude la violenza e lo sfruttamento. Il vecchio filosofo non cede, sino al suo ultimo respiro, alla tentazione della distruzione: «Io resisto e so che morirò nella speranza»
La Repubblica, 9 luglio 2019

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