Paolo Borsellino |
di Salvo Palazzolo
Li ha svelati la Commissione antimafia
Il nastro appena ritrovato negli archivi della commissione parlamentare
antimafia è in perfette condizioni. Anche se sono passati 35 anni, la voce del
giudice Paolo Borsellino sembra essere stata registrata ieri. Dice: «Desidero
sottolineare la gravità dei problemi, soprattutto di natura pratica, che
dobbiamo continuare ad affrontare ogni giorno... Di pomeriggio è disponibile
solo una macchina blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere
quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in
ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Con ciò
riacquisto la mia libertà, però non capisco che senso abbia farmi perdere la
libertà la mattina per essere poi libero di essere ucciso la sera». Il 19
luglio 1992, riuscirono ad ucciderlo proprio perché c’era una falla enorme nel
sistema di sicurezza: mancava la zona rimozione davanti casa della madre del
magistrato, dove lui si recava ogni domenica pomeriggio.
Il fratello: altri archivi da aprire
«Io senza scorta, libero di essere ucciso », ripeteva Borsellino l’8 maggio
1984 davanti alla commissione antimafia in trasferta a Palermo. Per uno strano
gioco del destino, quel giorno a dargli la parola era stato un vice presidente
che portava lo stesso cognome della strada in cui poi fu ucciso, il senatore
D’Amelio. Sono un pugno allo stomaco le parole del giudice Paolo che adesso il
presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, ha deciso di rendere pubbliche. Sei
audizioni, registrate fra il 1984 e il 1991. Tranne la prima, erano tutte
secretate.
Ma al fratello di Borsellino, Salvatore, non basta. «È necessario che
ci venga restituito tutto», ha scritto nella lettera con cui ha rifiutato
l’invito di Morra a partecipare alla conferenza stampa in cui è stata
annunciata la desecretazione degli atti di Palazzo San Macuto dal 1962 al 2001.
Salvatore Borsellino chiede che vengano aperti tutti gli archivi di Stato,
perché, ribadisce, «qualche funzionario di uno Stato deviato ha rubato l’agenda
rossa di Paolo. Anche quella ci devono restituire».
E, intanto, le parole segrete di Borsellino all’Antimafia sono già un atto
d’accusa contro la politica distratta (nella migliore delle ipotesi) sul tema
della lotta alle cosche. In quella primavera dell’84, i magistrati del
pool di Palermo stavano preparando la grande istruttoria del primo maxi
processo a Cosa nostra. «Fra tanti gravi problemi». Per gestire le centinaia di
migliaia di pagine del processo il ministro della Giustizia aveva mandato un
computer: «Ma è rinchiuso dentro un camerino, purtroppo non sarà operativo se
non fra qualche mese perché sembra che i problemi di installazione siano
estremamente gravi, e non si riesce a capire perché». La stessa disattenzione
dello Stato Borsellino denunciava due anni dopo, da procuratore di Marsala:
«Qui l’ufficio è smobilitato ». E se la prendeva col Csm che tardava a
mandare pubblici ministeri in quella frontiera.
Il regno dei Messina Denaro
Le parole ritrovate di Borsellino non raccontano solo gli anni in cui la
lotta alla mafia era fatta da una pattuglia di magistrati e investigatori.
Raccontano dei misteri attualissimi di Cosa nostra, racchiusi nella provincia
di Trapani, la terra di Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi originario
di Castelvetrano che lo Stato non riesce ad arrestare dal 1993. Diceva
Borsellino nel corso della trasferta a Trapani dell’Antimafia,era il 4 dicembre
1989 e lui era ormai il procuratore di Marsala: «Questa è terra di grandi
latitanti: Provenzano, Riina e altri nomi storici». E citava Castelvetrano: «Vi
sono grandi proprietà di mafia, che ora stanno vendendo e sto facendo delle
indagini per capire a chi. Proprietà di Saveria Palazzolo, la moglie di
Provenzano, ma anche di Badalamenti, di Bontate, cioè delle famiglie perdenti.
Vi fu infatti un periodo in cui questa era zona di espansione di tutte le
famiglie». In poche righe, un concentrato di misteri. Non solo la latitanza
dell’ultimo corleonese delle stragi, ma anche il tesoro delle vecchie famiglie,
mai sequestrato.
Un tesoro che ancora oggi è motore di nuove relazioni nella Cosa nostra 2.0
di Messina Denaro. Un’altra intuizione di Borsellino, che segnava una strada:
«Questa provincia è un santuario — ma a questo proposito confesso che non siamo
riusciti a cavare un ragno dal buco — perché qui esistono gli strumenti finanziari
necessari per le transazioni illecite ». L’ennesimo grido d’allarme caduto nel
vuoto. E per tanti anni, il ruolo dei Messina Denaro è stato sottovalutato.
Mentre le denunce di Borsellino restavano sepolte dentro un archivio del
Parlamento.
Chissà quante altre verità nascoste ci sono tra i file dell’Antimafia.
Morra ha voluto come consulente uno dei pm del processo Stato-mafia, Roberto
Tartaglia: proprio per provare a cercarle quelle verità. Uno spunto lo offre
Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle
vittime della strage dei Georgofili. Dice: «Nel palazzo dell’Antimafia sono
accadute cose strane, il pm di Firenze Gabriele Chelazzi che aveva indagato sul
dialogo Stato-mafia fu sentito per 15 minuti, poi rinviarono subito. Aspettava
di essere richiamato, ma morì prima». Misteri dell’Antimafia.
La Repubblica, 17.7.2019
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