EMANUELE MACALUSO
Andrea
Camilleri è morto. Sapevo, dal medico che lo seguiva, che il terribile male che
lo aveva colto un mese fa in piena salute e attività, era talmente grave per
cui era molto difficile, anzi quasi impossibile, che potesse riprendere
conoscenza e guarire. Tuttavia, oggi, lontano da Roma, ho appreso la notizia
della sua scomparsa con una fitta al cuore. Volevo bene a Camilleri, per più motivi. Come scrittore, ha raccontato
nelle sue numerose opere la Sicilia e i siciliani, con risvolti che si possono
così sintetizzare: c’era il peggio e il meglio, la mafia e l’antimafia (quella
vera), l’illegalità come consuetudine e l’impegno di tanti per contrastarla con
l’esempio della legalità, non solo quella scritta nei codici, l’ingiustizia
come pratica delle classi dirigenti e una evidente rassegnazione, contrastata
dalla lotta per la giustizia.
Camilleri
racconta quando ragazzo, nel suo paese dell’agrigentino, Porto Empedocle, come
tanti era fascista, ammirava Mussolini, ma osservando gli accadimenti sociali e
civili della Sicilia contadina e degli zolfatari, e riflettendo su questa
realtà diventa antifascista e comunista. In questa sua biografia politica,
raccontata con passione e verità, c’è un pezzo della Sicilia e di una
sicilianità che avevo trovato in Sciascia e Guttuso. Una sicilianità che è il
contrario del sicilianismo piagnone, ma la sintesi di una storia che si fonde,
si intreccia con i fatti, con il Risorgimento, con l’Italia che diventa
nazione, con la Resistenza del comandante Barbato, il siciliano mio compagno e
amico Pompeo Colajanni.
Recentemente,
quando ascoltavo alla radio o in tv le intemerate di Camilleri contro il
salvinismo, soprattutto per quel che riguarda l’immigrazione, e sentivo la
rivendicazione del suo antifascimo e la sua storia di militante comunista, mi
commuovevo. Ormai cieco, vedeva e capiva tutto quel che succedeva nel Paese e
nel mondo. E non guardava il passato come un nostalgico, ma come un patrimonio
per l’avvenire: diceva che sempre che non era un pessimista, ma un ottimista. E
ancora una volta, come siciliano, tra la rassegnazione e il trasformismo,
rivendicava il combattimento per contrapporsi allo stato delle cose, per
difendere la libertà, la democrazia e la giustizia sociale.
L’ultima
volta che lo incontrai, alcuni mesi fa, mi avvicinai per salutarlo e, cieco, mi
disse: chi sei? Risposi: Emanuele Macaluso. Mi abbracciò con forza, baciandomi
e dicendomi che non mi vedeva ma sapeva tutto di me e mi voleva bene. Addio,
amico e compagno carissimo.
17 luglio 2019
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