di Gad Lerner
Milioni
di voti perduti anche per la scarsa credibilità dei dirigenti Cofferati: torno
alla Pirelli. Poi cambia idea E Chiamparino sceglie Marchionne
«Siamo nati in un mondo
senza diritti e tutele: molti di noi non sanno cosa sono». Lo raccontava ieri
su Repubblica a Marco Patucchi un ventisettenne meccanico stampista
della Omron di Frosinone, somministrato - cioè affittato - da Adecco alla multinazionale
per cui lavora. Per la prima volta quel giovane ha partecipato a uno sciopero
generale dei metalmeccanici, tutelato da un contratto a tempo indeterminato
ottenuto dopo anni di precariato. Forse è un’avvisaglia. La sensazione che la
misura è colma, e che il futuro dell’industria italiana non si trova affatto in
buone mani, sta spingendo i sindacati a ritrovare l’unità perduta. E chi
sciopera non prova certo imbarazzo a farlo contro un governo che pure aveva
votato. Magari anche solo per marcare la sua distanza siderale da una sinistra
ai suoi occhi sfregiata dal marchio d’infamia del privilegio.
La sinistra senza operai
è un controsenso. Storico ed esistenziale. La ragione d’essere originaria della
sinistra consisteva nel rimettere in discussione il diritto assoluto alla
proprietà privata, in nome e per conto di chi ne era escluso. Da quando i
dirigenti della sinistra hanno smesso di minacciare il sacro dogma della
proprietà privata, allo scopo di rassicurare i detentori della medesima, nella
convinzione che averli contro avrebbe frenato la crescita economica e impedito
loro di accedere al governo dello Stato, ha avuto inizio la loro separazione
dalle classi subalterne. Per consolarsi di questo divorzio, o per evitare di
farci i conti, alcuni leader della sinistra nel passato recente erano giunti a
sostenere che gli operai non esistono più. Ma naturalmente è falso: cambiano
l’organizzazione delle aziende e cambiano le caratteristiche del lavoro sotto
padrone. L’epoca è semmai quella della proletarizzazione diffusa di nuovi
soggetti, non certo della scomparsa del lavoro alienato, tuttora afflitto
spesso anche da fatica fisica.
La destra che si erge a
paladina delle vittime di retrocessione sociale, purché dotate di appartenenza
nazionale su base etnica e religiosa, rimane altresì custode gelosa delle
gerarchie e, pur agitando vaghe promesse di vendetta contro i parassiti, mai e
poi mai farebbe sua un’azione incisiva a danno dei ricchi.
E’ spiacevole farci i
conti, ma i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno molto a che
fare con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti. Delle loro
biografie. Non a caso la propaganda della destra punta il dito contro
l’imborghesimento della sinistra. Non solo in Italia. Prendiamo il caso dei due
più grandi dirigenti di origine operaia che sul finire del secolo scorso hanno
guidato vittoriose rivoluzioni sociali e di libertà: Inàcio Lula da Silva in
Brasile, e Lech Walesa in Polonia. Per demolirne il mito, si sono scatenate
campagne di denigrazione personale,accusandoli di avere lucrato sul proprio
successo rinnegando le loro origini. E’ l’offesa più grave, perché i proletari
hanno bisogno di riconoscersi in chi li guida, a partire dal suo stile di vita,
per mantenere la certezza che continuerà ad agire nel loro interesse, nella
buona e nella cattiva sorte.
E in Italia? Nel lontano
2002 un segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, sul finire del suo
mandato fece un annuncio clamoroso ed esemplare: torno a lavorare nella mia
fabbrica, la Pirelli. Già da un ventennio il mondo del lavoro dipendente viveva
una retromarcia sia nel potere d’acquisto dei salari, sia nelle tutele
sindacali. Quel gesto da novello Coriolano sembrava indicare, col proprio
sacrificio personale, i tempi lunghi necessari per la rivincita operaia.
Cofferati era dirigente amatissimo, da molti indicato come la figura più adatta
per un progetto di rifondazione della sinistra. Ma ben presto tornò sui suoi
passi, accettando la candidatura a sindaco di Bologna. E l’incantesimo si
spezzò. Come se non vi fosse più spazio in Italia per il sogno di un
leader operaio. Al contrario, fu proprio in quegli stessi anni che
l’erede più riconosciuto della tradizione del Pci di Berlinguer, Massimo
D’Alema, per risultare candidato credibile alla guida del Paese, ritenne
opportuno "aggiornare" la sua immagine di umile funzionario di
partito. Tale innovazione gli costò sgradevoli insinuazioni, probabilmente
false, sul costo esagerato delle sue scarpe. Ma fu proprio lui, invece, a
compiacersi della (multi)proprietà di una barca a vela, status symbol
evidentemente ritenuto funzionale ai ruoli pubblici cui aspirava.
Si badi bene. Anche
Enrico Berlinguer amava veleggiare, e di lui si conserva una bellissima
fotografia al timone di una barca (non sua) nel mare di Sardegna. Ma nessuno
avrebbe mai potuto appiccicargliela addosso con finalità ironiche. Semmai la
vera foto-simbolo di Berlinguer rimane quella della sua dolorosa condivisione
di una sconfitta operaia: il comizio ai cancelli di Mirafiori, nell’autunno
1980, quando ormai si profilava inevitabile l’espulsione dalla Fiat di decine
di migliaia di lavoratori. Alle Botteghe Oscure, non pochi dirigenti del Pci
disapprovarono il segretario per quel comizio, in cui per giunta evocò
un’azione di lotta estrema come l’occupazione della fabbrica. Ma fu proprio un
istinto di sinistra a suggerire a Berlinguer che vi sono circostanze in cui, a
torto o a ragione, devi saper dire innanzitutto tu da che parte stai.
Avete presente,
trent’anni dopo, Matteo Renzi che proclama: «Io sto con Marchionne senza se e
senza ma»? Così come il sindaco torinese Chiamparino, tanto aspro e polemico
con Landini e Airaudo della Fiom, quanto compiaciuto di raccontare ai
giornalisti le sue partite a scopone notturne con Marchionne?
Mi scuso se ricorro a
esempi personali per spiegare un fenomeno mai riducibile ai sentimenti e alle
convenienze dei singoli (peraltro, l’ultimo a poter lanciare accuse
moralistiche sarebbe il sottoscritto). La recisione dei legami storici con il
mondo del lavoro, che in precedenza i partiti di sinistra curavano fino al
punto di garantire l’ingresso in Parlamento di quadri operai provenienti da
tutte le principali aziende del Paese - di modo che la controparte
imprenditoriale tenesse ben presente con quale forza doveva fare i conti -
precede e giustifica il cambiamento di stili di vita dei dirigenti. Non solo
degli ex comunisti, ma anche dei socialisti. Forse non è un caso se più
sobri si mantennero i cattolici, detentori di un altro credo messianico.
Comunisti e socialisti,
invece, esaurita la fede, marxista e messianica al tempo stesso, nella Classe
operaia con la C maiuscola, levatrice del rovesciamento dei rapporti di
produzione, oppure virtuosamente disposta ai sacrifici caricandosi sulle spalle
l’interesse nazionale, non potevano che trovare molto meno interessanti i
destini individuali degli operai in carne ed ossa. Fu allora che gli operai, il
popolo delle formiche, di sconfitta in sconfitta, cominciarono a sentirsi soli.
Gli intellettuali non
avevano più l’obbligo di rendere omaggio alla centralità operaia; e passava in
second’ordine perfino quel rispetto per il lavoro manuale, i mestieri e le
professionalità e la fatica fisica, che avevano fatto scrivere pagine
memorabili a Italo Calvino e Primo Levi, fra tanti altri.
Una vera e propria ansia
di legittimazione assale poi i gruppi dirigenti della sinistra allorquando si
fa concreta la prospettiva di accedere finalmente al governo nazionale, dopo le
tante ottime prove fornite nll’amministrazione delle città e delle regioni.
Bisognava rassicurare i soliti noti vecchi padroni del vapore. Già lo si sapeva
che gli ex comunisti non mangiavano i bambini. Di più, ora bisognava mostrare
loro, nei convegni e negli incontri riservati, che la modernizzazione proposta
dagli economisti di sinistra non avrebbe insidiato le posizioni dominanti
cementate nei decenni precedenti, soprattutto intorno a Mediobanca.
Oggi viene facile
orchestrare una danza macabra intorno alla sinistra senza operai, con tanti
iscritti Cgil che s’illudono di trovare rifugio nella trincea
pseudo-nazionalista del "prima gli italiani", e con lo smottamento in
zona leghista di Sesto San Giovanni, Monfalcone, Pistoia, Piombino, Ferrara.
Capita perfino che a scoprire l’acqua calda - l’infatuazione lib-lab dietro a
Blair, la ritirata dalle periferie, i diritti umani e i diritti civili
anteposti alla questione salariale - provvedano i medesimi aedi e rapsodi che
diffusero con zelo il verbo di quella terza via rampante. Più utile sarebbe
fare un passo di lato, riconoscendo il peso delle nostre fortunate biografie,
di gente bene inserita nelle stagioni in cui è stata al potere la sinistra
senza operai.
Anche mezzo secolo fa,
nel 1969, cominciarono a scioperare nuovi operai del tutto ignari di diritti e
tutele, come i giovani precari odierni. Venne l’autunno caldo che inaugurò un
ciclo vittorioso di conquiste sociali e di redistribuzione della ricchezza a
favore del lavoro. La storia suggerisce che, dove e quando meno te l’aspetti,
la sinistra popolare sa rigenerarsi esprimendo nuovi rappresentanti. Dalle
biografie più adatte.
La
Repubblica, 15 giugno 2019
Nessun commento:
Posta un commento