Enrico Berlinguer con la moglie e i figli a Roma nel 1972 |
A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda “la sua
lezione ancora viva”. E dice: “Non voleva che lo pensassero triste, non lo era”
Ancora oggi non credo di essere riuscita a elaborare completamente il mio
lutto». È un momento di pausa a Saxa Rubra, Bianca Berlinguer ha appena fissato
la scaletta del suo programma. Chiusa la porta della stanza, perde quel tratto
imperioso in cui si rifugiano molto spesso le donne pubbliche per difendersi
dal mondo. Sono passati 35 anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l’11
giugno 1984, e lei parla del padre con un’emozione intatta, come se quella
drammatica pellicola impressa nei ricordi di molti di noi – il malore sul palco
di Padova, l’agonia, il funerale in piazza San Giovanni – fosse stata girata
ieri.
Perché dici che non hai elaborato il lutto?
«Sento ancora un dolore vivo e profondo, come se una parte di me non
si fosse mai rassegnata a quella perdita e a quella assenza».
Non è cambiato nulla in questi anni nel tuo modo di rapportarti a lui?
«Non direi. La sua morte è stata così improvvisa e inaspettata e io ero
così giovane che ho faticato a elaborare un rapporto maturo con la sua figura.
E poi forse ha inciso anche un altro aspetto».
Quale?
«A me e ai mie fratelli fu sottratta quella intimità che accompagna gli
ultimi momenti di vita di un padre e di una madre. Fin dal malore sul palco di
Padova, la grande macchina del Pci e la diffusa emozione popolare finirono
involontariamente e per troppo amore col sottrarci una parte del nostro dolore
rendendolo così condiviso e così pubblico».
Ne parli come se ancora ti toccasse.
«E come potrei mai dimenticare quei giorni? Ci furono di grande conforto il
presidente Pertini e i pugni chiusi e i segni della croce di tantissime persone
al passaggio della bara. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, continuo a
percepire affetto e dolore per la sua perdita».
Come spieghi questo rimpianto così vivo?
«Forse perché mio padre è stato capace di rappresentare la speranza di un
cambiamento: il Pci ha incarnato questo progetto per molta parte del nostro
paese. Allora il leader era una figura mai separata dal suo partito. Ed
esisteva una forte identificazione tra il segretario e il militante perché le
loro vite erano simili: passione, lotte e sacrifici. E di dedizione a
quell’idea».
So che non ti vuoi spingere al paragone con l’oggi.
«È impossibile. Tutto è cambiato, a cominciare dalla divisione del mondo in
due blocchi. Poi mi ha sempre dato fastidio questo strattonarlo da una parte o
dall’altra per immaginare che cosa avrebbe detto rispetto all’attualità. Non
voglio farlo io».
C’è qualcosa che ti disturba nella memoria pubblica di Enrico Berlinguer?
«Ci sono aspetti rimasti nell’ombra, come l’ amore per il suo Paese e le
istituzioni democratiche. Non è un suo tratto peculiare, ma proprio di gran
parte della sua generazione che coltivava un fortissimo senso dello Stato, a
prescindere dalle appartenenze partitiche. Mio padre era un comunista italiano.
E negli anni difficili del terrorismo e delle stragi l’interesse nazionale
veniva prima anche dello stesso interesse del Pci».
Il feretro era avvolto in una bandiera italiana.
«Sì, così lo accompagnammo nel viaggio dall’ospedale di Padova fino
all’aeroporto dove ci imbarcammo sull’aereo del presidente Pertini. Quando arrivammo la sera tardi a Ciampino, mamma si accorse che c’era solo
la bandiera rossa. E allora chiese che ci fosse anche il tricolore. Enrico, disse, era prima di tutto un uomo che amava il suo paese».
Fu criticato perché ci mise tanto a fare lo strappo dall’Urss.
«Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito. Ma in
realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo
discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione
glaciale. E nel 1973 c’era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria:
lui era convinto che si fosse trattato di un attentato».
Anche in famiglia non avvertivi un sentimento di vicinanza all’Urss.
«Tutt’altro. Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave, nel nostro unico
viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: “Poveri
noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov” (un
importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato
speciale».
Cos’altro non approvi della sua immagine pubblica?
«La tendenza a leggere la questione morale come espressione della diversità
antropologica dei comunisti. In quella celebre intervista a Scalfari mio padre
denunciò l’occupazione della società e dello Stato da parte dei partiti,
anticipando quello che sarebbe poi accaduto, ossia la sfiducia dei cittadini
nella politica. Non l’ho mai sentito parlare di superiorità morale dei
comunisti».
Il suo tratto caratteriale non ammetteva nessuna supponenza.
«Era un uomo sobrio, ma anche tormentato, che si faceva tante domande.
Sentiva il peso di guidare il maggior partito comunista dell’Occidente».
Era timido?
«Sì».
E quando Benigni lo prese in braccio?
«Ero con lui al Pincio. “Ma papà che gli hai detto quando ti ha
sollevato?”. “Piano, piano”. Era preoccupato dalla paura di cadere con lui.
Però era contento. Benigni gli piaceva molto».
C’è un suo gesto in particolare che ti manca?
«Le tante cose fatte insieme. Ora capisco di più il valore di certe sue
attenzioni, quando durante una campagna elettorale difficile o un congresso del
Pci lo costringevo, stanco com’era, a preparare con me l’interrogazione di
filosofia del giorno dopo».
Cosa gli procurava dispiacere?
«Il fatto di essere considerato triste e serioso. Papà non lo era affatto.
Anzi era anche un po’ naif, capace di iniziative imprevedibili, come se volesse
recuperare qualcosa che nell’infanzia gli era stata negata. La morte precoce
della madre aveva segnato profondamente la sua vita. Da qui anche il tratto di riservatezza e pudore verso i propri sentimenti. Ma con noi figli ritrovava quella giocosità forse mai vissuta pienamente da
bambino».
L’ultima volta che hai pensato: cosa avrebbe detto o fatto?
«Sempre, Anche ieri».
Ti capita di chiedergli ancora l’approvazione e temere di non averla?
«L’ho fatto per tutta la vita e continuerò a farlo. Ma credo che sia una
prerogativa di tutti i figli rispetto ai propri genitori, soprattutto se sono
mancati presto».
La Repubblica, 11 giugno 2019
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