Enrico Berlinguer con Eugenio Scalfari |
di Eugenio Scalfari
Enrico Berlinguer aveva in mente di sostenere l’autonomia dei partiti
nazionali comunisti occidentali dall’influenza della Russia e della Cina. Rese
concreta questa rottura con il passato attraverso alcuni interventi che fece al
comitato centrale del Partito comunista sovietico. In particolare le sue parole
a Mosca, nel 1969, segnarono un nuovo inizio, quando disse: «Noi respingiamo il
concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per
tutte le situazioni». E ancora: «Ogni Paese ha la sua storia. Ogni partito
opera in una realtà storicamente determinata e condizionante».
I socialisti, che all’epoca, dopo Pietro Nenni, erano guidati da Francesco
De Martino, fecero un patto di unità d’azione con Berlinguer perché
appoggiavano la sua tesi. E lui spiegava: siamo i comunisti italiani, ma non
cessiamo di credere nei valori del comunismo che sono eguaglianza e libertà,
era il suo credo. Gli si obiettò: sono i valori della Rivoluzione francese. Sì,
replicò, ma se voi leggete quello che scrissero nel Manifesto del partito
comunista Marx ed Engels, nel 1848, troverete che le libertà borghesi sono
libertà fondamentali alle quali i comunisti affiancano l’eguaglianza, che è
molto più importante della libertà. Questa – diceva Berlinguer – è la
distinzione tra noi che siamo comunisti e i liberaldemocratici socialisti del
resto d’Europa: quando avremo affermato insieme alla borghesia dei vari paesi
la libertà, allora faremo la rivoluzione proletaria per affiancare alla
libertà l’eguaglianza. E “libertà ed eguaglianza” sarà il nostro motto
mondiale. Io ero deputato e durante quegli anni conobbi Berlinguer. Quando poi
ci fu il sequestro Moro, lui, da capo del Partito comunista, propose alla
Democrazia cristiana di fare un’alleanza dei forti contro i deboli. I forti
erano quelli che dicevano: noi dobbiamo prendere i brigatisti e mandarli in
galera. Questo partito della fermezza era costituito da metà della Dc,
dall’intero Pci e da Ugo La Malfa. Noi, come Repubblica, eravamo
l’unico giornale che era per il partito della fermezza.
Intervistai Berlinguer cinque volte: un’intervista, quella uscita il 28
luglio 1981, era sulla “questione morale”. Dopo questi cinque incontri eravamo
ormai diventati amici, tanto che lui mi invitò una sera a casa sua e io
ricambiai. Ormai ci davamo del tu. Berlinguer mi diceva: «Ci stai aiutando
molto».
Poi lui morì. E ricordo che gran parte della direzione del Pci partì subito
per Padova. A Roma era rimasto un gruppo guidato da Pietro Ingrao per preparare
i funerali. Io andai nella sede della direzione: Ingrao mi venne incontro. Gli
dissi che ero estremamente desolato perché condividevo lo stesso pensiero di
Berlinguer. Tanto che avevo finito per votare per il Pci. Mentre stavo andando
via, a metà del salone, Ingrao mi abbracciò. Il gesto mi commosse
profondamente. Sentendo che piangevo, anche Ingrao iniziò a singhiozzare,
cercando di consolarmi. Più lui provava a consolarmi, più il mio pianto
aumentava. Passarono cinque o sei minuti. Poi sciogliemmo l’abbraccio.
Berlinguer è il contrario di Renzi. Il Pd non è altro che il Partito
comunista di Berlinguer. Il Pci di Berlinguer venne ereditato da Achille
Occhetto, il quale cambiò il nome: non più Pci ma Pds, Partito democratico
della sinistra. Ma fu Berlinguer per primo ad avere trasformato il Partito
comunista in un partito democratico di sinistra. Quanto sarebbe diverso avere
oggi un Berlinguer a capo del Pd.
La Repubblica, 11 giugno 2019
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