Un frame del film di Bellocchio (clicca per vedere il trailer |
Forse Tommaso Buscetta (1928-2000) rimane il più celebre collaboratore di giustizia della storia della mafia siciliana. Marco Bellocchio sceglie un tema scivoloso e un personaggio scomodo, cui dedicare una film lungo (148 minuti), ma non prolisso. Racconta la vicenda di Buscetta (Pierfrancesco Favino) negli ultimi 20 anni della sua vita, con qualche breve flashback del passato.
Arrestato in Brasile, la storia è
nota, Don Masino, detto anche il boss dei due mondi, fu estradato in Italia
dove iniziò a collaborare con il giudice Giovanni Falcone. Collaborare, perchè
lui non è un pentito, ripete spesso come un mantra, sono i corleonesi di Riina
che hanno tradito i valori di Cosa Nostra. Nel frattempo i suoi ex compagni
cominciano il massacro dei suoi famigliari, che coinvolge figli, fratelli,
cognati e altri parenti.
L’apice della vicenda sarà il
Maxiprocesso di Palermo, dove Buscetta risponderà alle domande della Corte e
accetterà il confronto con Pippo Calò (Fabrizio Ferracane). Negli anni
successivi, non senza polemiche, Buscetta vivrà sotto protezione e con altra
identità negli Stati Uniti, salvo qualche deposizione in Italia (come al
processo Andreotti per la morte di Mino Pecorelli), per morire negli Usa nel
2000.
Difficile fare un film su Buscetta.
E certo da Bellocchio non ci si aspetta un film lineare, o una classica
narrazione da mafia movie. Ne esce un ritratto ambiguo, complesso, spiazzante,
come era la personalità di Buscetta.
Favino è strepitoso, ma sono da citare
almeno anche Ferracane che fa Calò (il duello a processo è notevole) e Luigi Lo
Cascio nei panni di Totuccio Contorno, altro mafioso pentito. La sceneggiatura,
cui hanno collaborato anche Francesco Piccolo e Francesco La Licata, schiva
quasi sempre il rischio di essere didascalica: Falcone è credibile, anche se in
un ruolo marginale rispetto alla narrazione (citato l’episodio celebre del
pacchetto di sigarette durate gli interrogatori), ai mafiosi è restituita la
volgarità o l’ignoranza (vedi Riina), o lo spirito sprezzante di un Liggio a
processo; ma la pellicola ha anche dei picchi di grottesco (la festa iniziale
ha qualcosa di mortifero), passaggi surreali e violenti, divagazioni oniriche
inquietanti, una scelta musicale (Nicola Piovani) efficace e provocatoria in
certi passaggi: del resto non ci si poteva aspettare di meno, dall’autore
de “I pugni in tasca” (1965) e “L’ora di religione” (2002),
solo per citare un paio di titoli.
Presentato proprio il 23 maggio, al
Festival di Cannes, in concomitanza con l’uscita nelle sale, ha riscosso grandi
applausi (13 minuti) e commenti positivi sulla Croisette e alimentato qualche
polemica in Italia, per la data di uscita.
Rimane un film complesso, pieno di
riferimenti e dettagli, potente e abile nel rappresentare la cupa e
contraddittoria personalità del suo protagonista. E’ pur sempre
l’interpretazione che ne danno Bellocchio e i suoi sceneggiatori: la storia non
si scrive con i film, nel bene o nel male.
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