Umberto Santino |
Accolgo volentieri la proposta di
Maria Falcone di istituire un “tavolo delle idee” a cui partecipino le varie
componenti dell’antimafia, civile, sociale, istituzionale, per un confronto che
faccia il punto sullo “stato dei lavori” e ridefinisca una strategia sui vari
aspetti della prevenzione e del contrasto alle mafie e della progettazione di
alternative. In una società che, nonostante arresti, processi e condanne,
sequestri e confische di beni, continua a produrre mafia o gruppi che si
rifanno al metodo mafioso. È una partita che pare replicarsi all’infinito e la
fine di cui parlava Falcone non sembra imminente.
Ho apprezzato il riferimento alle lotte contadine del secondo Dopoguerra,
che sapevano coniugare antimafia e antifascismo in una mobilitazione di massa
per una democrazia compiuta. È uno degli aspetti dei miei studi e delle mie
ricerche a cui tengo di più, perché testimonia una continuità nella lotta alla
mafia, con soggetti, modi e contesti diversi, che viene troppo spesso ignorata.
Nei miei incontri anche qui in Sicilia, e soprattutto nel resto d’Italia e
all’estero, lo stereotipo che circola di più è che, prima del 1992, tutti i
siciliani eravamo mafiosi o complici dei mafiosi e dopo siamo diventati, tutti
o quasi tutti, antimafiosi.
È vero: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano idee politiche molto
diverse, ma combattevano fianco a fianco. Ma andrebbe ricordato che Borsellino
faceva riferimento alle responsabilità politiche e in un’intervista, non
casualmente archiviata, i riferimenti erano espliciti. L’intervista con due
giornalisti francesi, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, è del 21 maggio 1992,
due giorni prima del 23 maggio, e alcuni personaggi hanno nomi e cognomi:
Vittorio Mangano, capo di Porta Nuova e “stalliere” ad Arcore, legato a
Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia. Uomo “di destra”, Borsellino, ma
che sapeva perfettamente cosa si muoveva da quelle parti e nei dintorni e
certamente non vi si riconosceva.
Il problema non è la “purezza” di una presunta antimafia doc, il dispensare
o negare patenti, rivendicare primogeniture, ma semplicemente distinguere tra i
proclami e le pratiche quotidiane. E questa distinzione non è per partito preso
ma si fonda su atti concreti.
Negli anni del maxiprocesso sembrava che tutte le istituzioni fossero
schierate contro la mafia. Poi, proprio per il suo esito positivo, il pool di
magistrati fu sciolto. Perché quel metodo di lavoro, per tanti, era più una
minaccia che una rassicurazione. Se guardiamo a quello che sta succedendo sotto
i nostri occhi, il decreto sbloccacantieri, azzerando i controlli su appalti e
subappalti, favorisce o contrasta gli affari dei mafiosi? E, a proposito di
antifascismo, le pose da ducetto di Salvini, le sue aperte simpatie per i
camerati di CasaPound, alla cui casa editrice ha affidato la sua egologia, il
consenso di cui gode, unito all’astensionismo, non sono la prova della
fragilità della cultura democratica nel nostro Paese?
Non credo che la si rafforzi recitando il copione dell’unanimismo. È su
questi terreni che si misurano le politiche e si definiscono le parti. E se i
rappresentanti delle istituzioni sono presenze obbligate nelle cerimonie
ufficiali, non dovrebbero essere invitati a un confronto non ingessato, più che
a una parata d’occasione?
Alla luce di queste considerazioni, di elementare ragionevolezza, ben venga
il tavolo delle idee, come sono benvenute le collaborazioni per realizzare un
progetto unitario come quello del No Mafia Memorial. Ha ragione Vito Lo Monaco
quando scrive che bisogna avviare una nuova fase dell’antimafia, ma il problema
non è organizzare insieme i grandi eventi, ma superare la prassi dell’evento.
L’antimafia ha bisogno di strutture permanenti, ed è questo che manca non solo
nell’antimafia ma in tutto quello strano mondo che è la cultura a Palermo e in
Sicilia.
La Repubblica Palermo, 12 giugno 2019
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