EMANUELE MACALUSO
Nei giorni scorsi si è sviluppata
un’aspra polemica tra i dirigenti del Pd, animata dal gruppo che si definisce
renziano, sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abolito da una legge,
il jobs act, voluta dal governo Renzi e approvata dal parlamento. Questi
esponenti del Pd hanno reagito pesantemente verso chi vuol discutere ciò che è
ancora valido di quella legge e quel che, eventualmente, possa essere
modificato a proposito dei licenziamenti per giusta causa, tenendo anche in
conto una sentenza della Corte costituzionale.
La cosa che colpisce, di questa
discussione ed anche di quella che a suo tempo suggerì l’abolizione
dell’articolo 18, è l’ignoranza della storia e di quanto avveniva nei posti di
lavoro, nelle fabbriche, e che portò all’approvazione dello Statuto nel 1970 .
Io ricordo bene, perché c’ero, che già negli Anni ’50, nel Direttivo nazionale
della Cgil si discuteva di questa questione. Più di una volta, Di Vittorio
propose che si intervenisse anche con una legge consapevole però del fatto che
non avrebbe potuto avere, allora, un successo sicuro. Erano anni in cui i
licenziamenti per rappresaglia nei confronti dei dirigenti sindacali e della
sinistra rappresentavano una piaga purulenta su cui era urgente intervenire.
Centinaia di lavoratori persero il lavoro. La Fiat, non potendo licenziare
operai che avevano avuto una storia nella Resistenza e contro il fascismo,
istituì il “reparto confino” dove radunò tutti gli indesiderabili.
La battaglia contro i licenziamenti
senza giusta causa, accertata dalla magistratura, fu lunga e dura. E la legge
dello Statuto, con quell’articolo 18, non fu approvata da un governo leninista
ma da un governo di centrosinistra (Dc, Psi, Psdi, unificati nel Psu, Pri)
proposta e sostenuta da un ministro socialista, Giacomo Brodolini e, dopo di
lui, dal ministro democristiano Carlo Donat Cattin. So bene che, dopo quella
legge, vi è stata una campagna, condotta dalla destra, dai suoi giornali, dalla
Confindustria. Ricordo che qualcuno scrisse persino che un macellaio non poteva
licenziare un suo dipendente che andava a letto con la moglie. Ma la campagna
più insidiosa e falsa fu quella che propagandava come quell’articolo 18 fosse
una remora agli investimenti, soprattutto esteri e quindi allo sviluppo. Dando
ascolto a questa campagna, fondata sul nulla, si volle abolire il 18.
I fatti di questi ultimi anni, dopo
l’abolizione, e con i problemi economico e sociali acuiti dalla crisi, ci
dicono che i fattori di crescita o decrescita dell’economia (industria,
commercio, agricoltura) sono ben altri. Ora spero che tutti l’abbiamo capito.
Sia chiaro: non sto sostenendo che bisogna ripristinare l’articolo 18. Perché
il mondo dell’economia è cambiato radicalmente ed è cambiato quello del lavoro
e dell’impresa. Ma discutere il tema dei licenziamenti nel quadro economico e
sociale di oggi, non di ieri, è un peccato mortale? A me non pare. Buon lavoro
a tutti.
(24 giugno 2019)
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