Maria Falcone, sorella di Giovanni |
di Enrico del Mercato
La sorella di Giovanni Falcone è stata
sempre «la sorella» di Giovanni Falcone. Anche quando Giovanni Falcone era un
ragazzo e a lei non era toccato in sorte il doloroso compito di conservarne la
memoria. Adesso che si avvicina il ventisettesimo anniversario della strage di
Capaci e proprio nel giorno in cui il giudice ucciso dal tritolo mafioso
avrebbe compiuto ottant’anni, Maria Falcone riavvolge il nastro della memoria:
«La verità è che Giovanni, benché fosse il più piccolo tra noi, per me era il
fratello maggiore: era bello, faceva sport, io non lo vedevo studiare quasi
mai, eppure a scuola era bravissimo. Era come se, già allora, a livello
inconscio io lo vivessi come un super eroe».
Parecchi anni, e dolori e sconfitte e vittorie dopo, Maria Falcone si accinge,
per la ventisettesima volta, a celebrare il 23 maggio.
«Una data — dice — che al pari del 19 luglio (il giorno in cui vennero
uccisi Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, ndr) è
diventata una ricorrenza nazionale. Dopo la morte di Giovanni, di Francesca e
degli uomini della scorta, c’è stato l’inizio di un movimento della società
civile che ha dato i suoi frutti».
Ecco, professoressa Falcone, non c’è il rischio che la commemorazione di
Giovanni Falcone si trasformi, come molti sostengono, in una passerella? In un vuoto ripetersi di parole di circostanza?
«E se non la facessimo più? E se non invitassimo più le istituzioni? Di
certo tutto verrebbe dimenticato. Guardi che il 23 maggio è la fase finale di
un percorso, è una data nella quale si ritrovano persone con la gioia di chi
sta facendo qualcosa di positivo. Noi lavoriamo tutto l’anno nelle scuole e
questo è il momento conclusivo.
Quest’anno il tema era la grande intuizione di Giovanni: seguire il denaro
per colpire la mafia».
Giusto per parlare di denaro: in questi anni i finanziamenti alle
associazioni antimafia non sono mancati. Non crede che questo giro di soldi
possa inficiare la genuinità dei movimenti antimafia?
«Magari i soldi fossero tanti. Noi ne riceviamo pochi e solo dalle istituzioni
pubbliche. Guardi che i soldi servono a organizzare le cose. Le "navi
della legalità" che portano migliaia di ragazzi da tutta Italia a Palermo
come si potrebbero organizzare senza soldi? I soldi servono ma devono essere
puliti. E noi su questo vigiliamo».
Ammetterà che la bandiera dell’antimafia è servita a coprire nefandezze.
L’ex presidente degli industriali siciliani Antonello Montante, l’ex presidente
della sezione Misure di prevenzione del tribunale Silvana Saguto.
«Sono cose che mi addolorano. È fango gettato in faccia a chi ogni giorno
insegna ai giovani a combattere la mafia. In ogni società ci sono i buoni e i
cattivi. Il rischio è che si faccia di tutta l’erba un fascio. Mi rifaccio
alle parole di Giovanni: fare il proprio dovere fino in fondo, in ciò è
l’essenza della moralità».
Dal corteo per Peppino Impastato sono stati allontanati i Cinquestelle, il
suo invito per il 23 maggio al ministro dell’Interno Salvini ha già fatto
storcere il naso a molti.
«Mio fratello diceva che le istituzioni sono sacre. E che non bisogna mai
confondere le istituzioni con le persone che temporaneamente lerappresentano. E
che, comunque, sono lì perché legittimate dal voto popolare».
Qual è l’ultima immagine che ha di suo fratello Giovanni?
«All’ingresso di casa mia col suo borsone dal quale non si separava mai.
Era l’8 o il 9 maggio del ’92. Mi disse: ci vediamo per il mio compleanno. Che era il 18 maggio».
Poi, invece, ci fu il 23 maggio. E poi la memoria di cui lei si è fatta
custode. Ventisette anni dopo, perché decise che la memoria di suo fratello
dovesse essere tenuta in vita. E perché decise di dover essere lei a
farlo?
«Ero disperata, come sorella di Giovanni. Ma anche come cittadina italiana.
Come sorella avrei potuto scegliere di combattere il dolore chiudendo le
saracinesche dei ricordi. Come cittadina la mia preoccupazione era che
quel patrimonio di idee di Giovanni si perdesse. Mi tornarono in mente
le parole di mio fratello: la mafia è anche un fatto culturale.
Decisi che bisognava lavorare sulle coscienze attraverso la memoria.
Serviva che i giovani prendessero coscienza. Dopo 27 anni posso dire che
questo cammino è stato compiuto. E sono contenta anche per la mia città: la
società è cambiata, sono stati fatti molti passi avanti. Peccato che Giovanni
non abbia potuto vedere la sua Palermo oggi».
La sua città, Palermo. Quando suo fratello era in vita, molti non lo
amavano. Le è mai capitato, frequentando i salotti di Palermo, di intercettare
commenti negativi o improntati al fastidio per l’azione antimafia che
svolgevano suo fratello e i suoi colleghi del pool?
«I salotti che frequentavo erano quelli degli amici che ho ancora adesso.
Certo, a volte mi capitava di andare in luoghi dove non ero mai stata e di
accorgermi che, vedendomi, qualcuno cambiava discorso».
Quando suo fratello faceva il magistrato a Palermo ha mai sentito il rumore
della paura?
«Lo avvertivo, ma non ne parlavo a Giovanni. Solo quando lui accettò di
entrare a far parte del pool di Rocco Chinnici, gli chiesi: perché hai
accettato? E lui mi rispose: "Perché si vive una volta sola". Ma la
paura c’era. Quando Giovanni si separò dalla prima moglie, tornò a vivere a
casa di mia madre e io vivevo accanto. Una mattina esco da casa mia e vedo un soldato di guardia davanti a casa di
mia madre. Ecco, lì ebbi paura. Ma non lo dissi mai a Giovanni».
Ma non le pesa essere conosciuta e appellata solo come «la sorella di
Giovanni Falcone»? In molti sostengono che lei ha un po’ costruito una carriera
su questo.
«Per me è un privilegio essere conosciuta come la sorella di Giovanni
Falcone. Quando incontro persone che mi dicono "Grazie per tutto quello
che fa", supero ogni polemica e ogni disillusione».
La Repubblica Palermo, 19 maggio 2019
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