La notte del 18 maggio negli USA è morto il partigiano Peppino Benincasa. “COMMOSSI
RENDIAMO ONORE IMPERITURO AL PARTIGIANO Peppino Benincasa
– scrive Angelo Ficarra, vicepresidente Anpi Palermo -. Chi ha avuto la fortuna
e l'onore di incontrarlo sa come la sua intelligenza sprigionasse un profondo
amore per la vita e per la libertà. Antifascista sotto il fascismo fin da
ragazzino e per questo fatto rinchiudere dal podestà di Castronovo, prima
in un riformatorio e poi nella casa di correzzione di via Dante a Palermo.
Sopravvissuto alla strage di Cefalonia viene accolto dalla resistenza greca
Ellas. Importante la sua testimonianza presso il Tribunale militare di Roma sui
crimini nazifascisti relativi alla strage di Cefalonia. La sua morte
rappresenta una grande perdita per la Resistenza Italiana. Il suo profondo amore per la giustizia e per la libertà rimarrà per tutti
uno straordinario messaggio di fratellanza e di impegno civile contro
ogni violenza fascista e per la difesa della dignità umana”.
Pubblichiamo un
breve saggio di Pippo Oddo, che ne tratteggia egregiamente la figura.
Il cavalier Benincasa, già zzu Pippinu l’americano
di GIUSEPPE ODDO
Dal mio archivio informatico... sull'onda dell'emozione, uno scritto del
2012...
Se ancora oggi stento a crederci io che, oltre allo zzu Pippinu (classe di
ferro 1922), conosco bene anche il fatto e l’antefatto, è facile immaginare
come avrà accolto la notizia la buonanima di suo nonno Calò Gentile, quando gli
fu trasmessa non so da quale diavolo dell’inferno. Eppure, con nota del 14
febbraio 2012 [festa degli innamorati, ndr], il prefetto di Palermo aveva già
scritto così all’Ill.mo Signor Giuseppe Benincasa, via Tramontana n. 20,
Castronovo di Sicilia:
Egregio Cavaliere,
mi è gradito comunicarLe che con decreto del Presidente della Repubblica in
data 27 dicembre 2011, la S. V. è stata insignita dell’Onorificenza di
Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Nell’esprimerLe il mio più vivo compiacimento, sarò lieto di consegnarLe
l’onorifica distinzione non appena sarà pervenuta.
Umberto Postiglione
Ma l’interessato potè ricevere la missiva solo dopo alcuni giorni, grazie
agli amici del Municipio che gliela trasmisero tramite internet al suo
domicilio statunitense. È d’altronde risaputo che il vegliardo nostro sverna
nell’altra sponda dell’Atlantico per tornare in Sicilia, come le rondini, solo
in primavera, se gli va bene. Altrimenti alla vigilia della festa di San
Pietro, che per quanto scaduta, rimane pur sempre un evento di tutto rispetto
per i castronovesi stanziali e per quelli sparsi nel mondo. È superfluo
aggiungere che un minuto dopo aver ricevuto la bella nuova, lo zzu Pippinu si
attaccò al telefono per metterne a parte con una punta di malcelato orgoglio i
parenti e gli amici più cari, compreso chi scrive. Gli restò solo il rammarico
di non potere informare nessuno dei fratelli e delle sorelle (l’ultima delle
quali morì ultracentenaria sette o otto anni fa), né tanto meno suo nonno, che
gli aveva fatto da padre negli anni dell’infanzia quando era già gran ventura
se si poteva mangiare tutti i giorni pani e sputazza.
Che sagoma nonno Calò! Campiere sì, ma leccapiedi mai! Grazie a Dio,
Caliddu Gentile aveva giurato di non scadere a quel livello fin dall’età di
quattro anni, quando (dovendo rinunziare al latte della madre) fu costretto ad
imparare in fretta e furia tutte le strategie di sopravvivenza sperimentate con
successo nella Sicilia interna, dove il proverbio più in voga era: Inchi la
panza e ghinchila di spini. Nel 1860 si arruolò con Garibaldi e lo seguì fino a
Milazzo e due anni dopo anche in Aspromonte gridando a squarciagola: O Roma o
morte! Mafioso forse un po’ lo era, Calò Gentile. Altrimenti non sarebbe mai
diventato campiere nel feudo Savochella del barone Agnello di Siculiana. Ma se
lo era, apparteneva a quella maffia scarsa che non infieriva mai sui contadini
costretti dalla fama a rubacchiare qualche covone di grano ancora da dividere
con il padrone. Anzi, Calò li invitava a far tesoro del detto arrubbari a cu’
ha arrubbatu nun è piccatu, che molti anni dopo riecheggerà ammantato di
sociologismo negli espropri proletari in ambiente urbano. A furia di ripeterlo,
Calò Gentile finì coll’inimicarsi l’alta mafia dei monti Sicani, che il 22
aprile 1904 fece trovare la presunta testa del bandito Varsalona in avanzato
stato di decomposizione appesa ad una pertica nei pressi delle case grandi del
feudo Savochella, alle falde del monte Cammarata, e soprattutto il barone
Agnello, che (avendo messo una taglia di 5.000 lire sul feroce masnadiero)
diede il campiere in pasto alla giustizia, facendolo condannare a quattro anni
di reclusione.
Ma nemmeno il carcere valse a fargli togliere dalla testa che arrubbari a
cu ha arrubbatu nun è piccatu, motto destinato a diventare anche stella polare
del primo Peppino Benincasa. Il quale, sveglio com’era e aperto a tutte le
esperienze, già all’età di otto anni godeva della stima dei pochi antifascisti
di Castronovo e segnatamente del dottore Baldassare Pace e degli avvocati
Morici e Giovanni Buttacavoli, che volevano iniziarlo alla massoneria. Ma da
quest’orecchio il ragazzino non ci sentiva. Era invece più che propenso a
collaborare con loro tutte le volte che decidevano di organizzare uno scherzo
di cattivo gusto ai gerarchi del Fascio, a cominciare dal segretario politico
don Eugenio Landolina, meglio noto come don Rodrigo per i suoi metodi
autoritari e il malvezzo di schiaffeggiare in pubblico chiunque non si
prestasse ai suoi voleri o mostrasse tiepidezza verso l’alta missione cui era
chiamata la Patria guidata dal duce predappiano. E ne sapeva qualcosa lo stesso
Peppinello Benincasa, che più di una volta ricevette ceffoni e calci nel sedere
perché reo di aver tentato di difendere i ragazzini più deboli dalle prepotenze
dei coetanei.
Anche per questo, l’amato nipotino di Calò Gentile divenne longa manus
degli antifascisti fino al punto da improvvisarsi postino e attacchino dei
manifesti scritti a mano che raccontavano in rima baciata le prodezze di don
Rodrigo e dei suoi lacchè con gli stivali lucidi, il frustino di cuoio
intrecciato e la camicia nera. Ma non gli faceva difetto lo spirito di
iniziativa. Dopo aver studiato le abitudini dei gerarchi, che si riunivano
nella chiesa sconsacrata di Sant’Onofrio, nella centralissima piazza Pepi, una
sera del 1932 quel diavoletto aspettò che fossero spenti i fanali ad acetilene
per piazzare un asinello davanti alla porta in modo da farci sbattere il muso
al primo fascista che usciva dal locale. Lo scherzo riuscì a meraviglia e l’indomani
tutta Castronovo sapeva che uno dei più stretti collaboratori di don Rodrigo si
era abbracciato nottetempo con il camerata che raglia. Ad avvisare la
popolazione era stato un cartello anonimo affisso alla porta del Fascio,
nemmeno a dirlo, dal piccolo Benincasa. Tra i primi a saperlo fu il podestà,
che (per placare l’ira di don Rodrigo) non perse tempo a spedire il ragazzino
per punizione nel Convento di San Martino delle Scale.
Ora, mentre il nonno Calò s’imbufalì, lo zzu Pidduzzu Benincasa (padre del
birbantello) plaudì all’iniziativa: una bocca in meno da sfamare significava un
dono della misericordia divina. Ma era così cinico papà Benincasa? Un fascista
bigotto e fanatico? Neanche per sogno, a voler credere al figlio oggi cavaliere
al merito della Repubblica Italiana: «La mia infanzia non è stata felice –
confessa nell’incipit di un suo libro di memorie, cui ho avuto l’onore e il
privilegio di scrivere la prefazione –. Penultimo di una famiglia di dodici
figli, a cui la Provvidenza non ha fatto mancare mai il necessario, ho sempre
dovuto lavoricchiare per cercare di sbarcare il lunario. Mio padre tirava la
carretta attraverso lavori saltuari e di manovalanza. Era povero di roba ma
ricco di dignità. Gestiva una trattoria e percepiva un piccolo emolumento dal
Municipio per il ruolo di capo della banda musicale locale e per la formazione
dei giovani musicanti. Nonostante il fascismo agevolava le famiglie numerose
con piccoli sussidi, mio padre non lo volle mai accettare».
Né il plauso del fiero genitore al provvedimento podestarile poteva esser
scambiato per segno di resa. Il vero è che papà Benincasa temeva che presto
potesse venirgli a mancare il sostegno del suocero Calò Gentile, ormai più che
novant’anni (ma destinato a mantenersi in vita fino al 1940), e voleva
assicurare al figlio almeno il diritto alla vita e la possibilità d’imparare un
mestiere come Dio comanda. Ci riuscì e non mancò di adoperarsi affinché, dopo
due mesi di soggiorno a San Martino delle Scale, Peppinello fosse trasferito in
un Ospizio di beneficenza, a pochi passi dal Politeama di Palermo, dove rimase
ben nove anni, apprese il mestiere di falegname e imparò a suonare la tromba
così bene da essere poi richiesto come «solista» da diverse bande musicali
delle province di Palermo e Agrigento. Successivamente, il lungo e drammatico
soggiorno in un’isoletta del greco mar da cui vergine nacque Venere e l’amore
filiale per quel prezioso scrigno della storia che è il territorio della sua
Castronovo ne faranno un poeta di tutto rispetto e un bravo archeologo, nella
più rigorosa tradizione dei tombaroli pentiti (Cfr. La Sicilia, 12 settembre
2009).
Ai nostri fini interressa però ricordare per il momento che Peppino
Benincasa potè lasciare l’ospizio di beneficienza solo il 10 giugno 1941, giusto
in tempo per presentarsi alla visita di leva. «Risultato idoneo – racconta lui
stesso –, fui messo in congedo provvisorio». La fortuna sembrava essere
finalmente dalla sua parte, ove si consideri che l’Italia era entrata in guerra
da più di un anno. Ma la pacchia durò solo sei mesi. Il 2 febbraio 1942 fu
chiamato alle armi e destinato al 36° Reggimento di Fanteria motorizzata della
Divisione Pistoia. E da qui, dopo aver dimostrato di saper suonare la tromba,
eseguendo magistralmente la Casta diva della Norma di Bellini, fu trasferito
alla Compagnia Comando e aggregato alla banda musicale del Reggimento. Nel mese
di settembre passò al 317° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui, di stanza
a Zante, occupata dall’Italia sin dal 1941. E per alcuni mesi se la spassò come
non gli era mai capitato prima: donne, buon vino, esibizioni musicali in
piazza, tra «un busto in bronzo di Ugo Foscolo e una statua del poeta greco
Solomos». Mamma, canzone allora in voga nel nostro paese, divenne anche per
merito suo in breve tempo «l’inno dell’isola di Zante».
Ma il 13 febbraio 1943, la compagnia Comando e il corpo bandistico del 317°
Reggimento furono trasferiti a Cefalonia. Il grosso della forza lasciò Zante
alla fine dello stesso mese. La prima tappa fu Argastoli; la destinazione
successiva Balsamata, dove avrebbe conosciuto la bellissima Maria Lalli (sua
futura sposa) e alcuni esponenti del movimento partigiano ellenico. A giugno il
vecchio comandante della Divisione Acqui passò il testimone al generale Antonio
Gandin. Con l’arrivo delle reclute della classe 1923 l’insieme della forza
risultò composta da circa 12.000 uomini. A supportare l’occupazione degli
italiani c’erano circa 1.800 soldati tedeschi, perlopiù criminali comuni ai
quali era stato offerto l’arruolamento come alternativa al carcere. I rapporti
tra i due eserciti all’inizio furono buoni; le cose cambiarono bruscamente dopo
l’8 settembre, in conseguenza dell’armistizio che il generale Pietro Badoglio
firmò con l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America.
I fatti suono troppo noti per ritornarci.
Vale nondimeno la pena ricordare che la notte stessa arrivò un fonogramma
dal generale Vecchiarelli (comandante delle truppe stanziate in territorio
greco), che recitava: «Seguito conclusione armistizio, truppe italiane […]
seguiranno seguente linea condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza
armata, italiani non dico non rivolgeranno armi contro di loro, non dico non
faranno causa comune con ribelli né con truppe angloamericani che sbarcassero.
Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i
compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare». Il
giorno dopo lo stesso Comando Generale sollecitava l’esercito a cedere le armi
ai tedeschi e a lasciare gli avamposti presidiati. Indeciso sul da farsi, il
generale Gandin cercò di prender tempo. In qualche misura ci riuscì, offrendo
come segno pacificatorio ai tedeschi il controllo delle alture al centro
dell’isola. Ma il risultato fu che il 10 settembre gli ex alleati presentarono
un ultimatum che imponeva alle truppe italiane di consegnare le armi nella
piazza centrale di Argastoli, davanti all’intera popolazione. Nel frattempo
dalla terraferma greca cominciarono ad arrivare notizie contraddittorie: se
intere divisioni dell’esercito italiano si arrendevano ai tedeschi, i militari
della “Pinerolo” andavano ad ingrossare le file dei partigiani greci, che
controllavano i monti.
Anziché seguirne l’esempio, il 14 settembre il generale Gandin
chiamò tutti i soldati della Divisione Acqui a pronunziarsi in un referendum
con tre ipotesi: 1) arrendersi, 2) schierarsi a fianco dei tedeschi, 3)
combattere contro di essi. La risposta fu quasi unanime: Guerra ai tedeschi! Il
Governo presieduto da Badoglio frattanto invitava con un fonogramma a rivolgere
le armi contro gli ex alleati. A mezzogiorno il generale Gandin comunicava
l’esito del referendum; e così ebbe inizio l’inferno di Cefalonia. Il 15
settembre il Comando Supremo dell’esercito tedesco inviò nell’Isola nuovi
battaglioni, che appoggiati dall’aviazione e sfruttando il vantaggio acquisito
dal controllo delle alture, ridussero in pochi giorni all’impotenza il nostro
esercito; tanto che il 22 settembre il generale Gandin convocò un Consiglio di
Guerra, che si concluse con la decisione di arrendersi ai tedeschi. I soldati
italiani catturati furono fucilati per ordine di Hitler. La belva teutonica non
si acquietò il giorno successivo, nel corso del quale il bilancio dei militari
italiani fucilati arrivò a circa 4.500 soldati e 155 ufficiali; molti altri
nostri connazionali, tra i quali 129 ufficiali (compreso il generale Gandin),
furono passati per le armi tra 23 e il 28 settembre. Sommando anche i morti per
il successivo affondamento di tre navi, le vittime italiane ammonteranno a più
di 9.400.
Addetto alla difesa della Compagnia Comando, Peppino Benincasa durante una
rischiosa missione fu ferito leggermente ad una gamba da una scheggia di bomba
sganciata dall’aviazione tedesca. Ma non andò a riposarsi: benché dolorante non
potè sottrarsi né alle marce forzate né, tanto meno, alla cattura da parte del
nemico, che non mostrò certo particolari riguardi verso di lui, a giudicare da
come un soldato tedesco gli strappò dal collo una collana con una medaglietta
dorata della Madonna, credendo che stesse per appropriarsi di chissà quale
tesoro. «Il bastardo – racconta lui stesso – me la sfilò con forza dandomi uno
spintone. Caddi a terra insieme alla catena, il piastrino e la medaglietta […].
Mi venne un impeto di reazione, ma i miei compagni mi fermarono. Fu forse il
destino, ma quella caduta fu la mia salvezza. Indolenzito e pieno di rabbia, a
digiuno da due giorni e senza dormire, mi addormentai per terra. Non so quanto
tempo passò, nel dormiveglia sentii una voce: “In marcia”. A seguire sentii una
raffica di spari e i miei commilitoni che si accasciavano su di me. Gli spari
si confondevano con le urla ed i lamenti dei miei commilitoni, che cadevano
come birilli. Io fui travolto da quell’immenso peso umano che mi cadde addosso.
Rimasi schiacciato da tanti corpi oramai privi di vita, non riuscivo a
muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione. Al risveglio era buio, mi
trovai pieno di sangue con cadaveri addosso ed intorno. Ancora indolenzito e
sporco di sangue e con il dolore alla gamba, con la febbre, facevo fatica a
reggermi in piedi. Provavo a camminare carponi ma gli sterpi mi ferivano le
mani. Non avevo altra scelta, dovevo raggiungere Balsamata, se volevo
salvarmi». Si salvò, con l’aiuto degli isolani e in particolare di uno dei suoi
migliori amici, Giorgio Rasis, che lo metterà presto a contatto con i capi
della resistenza greca.
Queste e tante altre cose (compresi alcuni affreschi di vita quotidiana e
costumi ellenici) Peppino Benincasa (che pure aveva frequentato solo la
terza classe elementare) ha avuto modo di raccontarle nel libro autobiografico
Memorie di Cefalonia. La guerra volutamente dimenticata e il martirio della Divisione
“Acqui” (San Giovanni Gemini s. d., ma 2007), avvalendosi anche del supporto
morale e culturale di chi scrive e dei nostri comuni amici prof. Franco Licata
e dott. Mario Liberto, che ne hanno curato la pubblicazione. Di più, il prof.
Licata, già sindaco di Castronovo e allora presidente dell’Associazione
Culturale Kassar, scrivendo una pur breve presentazione del libro ha tenuto a
precisare che «fra i meandri di quella “sporca” guerra con tutti i rovinosi
effetti, lui [lo zzu Pippinu] riesce a cogliere le pur poche positività: la
solidarietà e l’accoglienza del popolo greco, che hanno raggiunto il loro
culminante epilogo nel grande amore per Maria Lalli, sua unica dea ed
insostituibile compagna di vita». È appena il caso di aggiungere che la
bellissima «greca», ormai nel mondo dei più, ha trovato la sua ultima dimora
molti anni fa nel piccolo cimitero di Castronovo. Per questo motivo il
cavaliere errante torna tutti gli anni nella terra natia e non manca di fare
una capatina a Cefalonia, dove Maria aveva ricevuto in eredità dai genitori una
casetta e piccolo appezzamento di terra.
E si noti che il suo frenetico andirivieni tra il nuovo e il vecchio mondo,
la Magna Grecia e le isole egee non soddisfa appieno la sua sete di periodica
innovazione ambientale, che ancora alla sua veneranda età lo porta pure dal New
Jersey in California, dalla Sicilia in Calabria, a Roma, a Venaria reale,
ovunque ci siano parenti ed amici da abbracciare o cose nuove da vedere. Il che
lo ha fatto apparire troppo spesso stravagante e raccontafavole da strapazzo.
Prova ne sia che fino a pochi anni addietro non erano molti i castronovesi
disposti a credere alla storia della sua miracolosa salvezza dalle mitragliate
tedesche. Non a caso quando presentammo il suo libro nella stessa piazza Pepi
dove ottanta anni prima il futuro cavaliere aveva fatto abbracciare il gerarca
fascista con il camerata con la coda, c’era moltissima gente ma i castronovesi
brillavano per assenza e, tra i pochi che assistevano, ce n’erano pure alcuni
con la faccia ridanciana.
Ma intanto le sue Memorie conquistavano nuovi lettori, andavano a ruba tra
gli addetti ai lavori, trovavano spazio nelle migliori biblioteche e nelle
librerie private di almeno due continenti. Davano il la ad importanti
iniziative come la festa e le attestazioni di stima che i castronovesi
residenti a Venaria Reale hanno riservato il 15 ottobre 2011 a Peppino
Benincasa e alla memoria di quella straordinaria donna che era stata sua
moglie, in onore dei quali vollero organizzare un originale spettacolo teatrale
(costruito dal regista Scibetta sul filo delle Memorie di Cefalonia) e una
commovente recita delle poesie d’amore che il romantico poeta aveva dedicato
alla sua bellissima greca. Ma già prima l’opera del Benincasa aveva richiamato
alla memoria le gesta di più di un eroe dimenticato. Può testimoniarlo anche
chi scrive. Nel libro (p. 48) c’è scritto:
Dal mio compaesano Vincenzo Tirrito, inteso Tuppo, e dal tenente Giuseppe
Triolo, durante la mia latitanza da partigiano greco ELLAS, mi raccontarono
delle gesta del capitano Antonino Verro di Corleone.
Questi era imparentato con Bernardino Verro, tra i fondatori dei Fasci
siciliani, sindaco di Corleone, socialista trucidato nel 1915 dalla mafia.
Antonino Verro era comandante della I batteria di accompagnamento. Partito da
Argostoli per raggiungere Sami con il I battaglione del 317° Reggimento
Fanteria Acqui, durante il trasferimento, a causa degli attacchi aerei degli
stukas, perdette sia uomini che mezzi.
A causa del contrattempo arrivò in ritardo per la battaglia. Il battaglione
era già schierato per la battaglia del ponte Kimonico ed aspettava
l’artiglieria. Il capitano Neri, subentrato nel comando del battaglione al
maggiore Salemi, era ferito, ed essendo il Verro il più alto in grado, prese il
comando di tutte le truppe. Il battaglione era già in grosse difficoltà dietro
l’incalzare del battaglione tedesco, e allo scoperto per essere colpito dagli
stukas. Il capitano, insieme al tenente Giuseppe Triolo, mio comandante di
compagnia, dopo capo partigiano, cercarono di riorganizzare il battaglione con
una mossa a sorpresa. Nei pressi di Divarata, il Verro, insieme ad alcuni
volontari, cadde in una imboscata. Fu fucilato immediatamente e senza processo,
nei pressi di un viottolo di montagna. L’ultima notte il capitano Verro l’aveva
trascorsa in una bettola del paese di Divarata, ancora oggi esistente e
trasformata in un negozio di formaggi locali.
Quando lessi per la prima volta questo passo, telefonai ad un mio amico
corleonese per chiedergli cosa ne sapesse dell’eroico suo compaesano. Ma sarà
stato per ragioni anagrafiche o forse perché nel paese dei Santi Leoluca e
Bernardo la gente ricorda meglio i nomi dei vari Navarra, Liggio, Reina e
Provenzano, fatto sta che sprecai il fiato e il costo della telefonata. Poco
propenso però come sono ad alzare bandiera bianca, provai a chiedere lumi anche
alla signora Rosellina Bentivegna Rizzo e, con mia immensa gioia, appresi che
il capitano Verro era sangue del suo stesso sangue, come lei discendente diretto
di Stefano Bentivegna, fratello del più noto eroe risorgimentale fucilato a
Mezzojuso il 20 dicembre 1856. Né la cosa finì lì. La signora Rizzo informò le
due cugine Verro (una delle quali vive in Lombardia) e le mise a contatto con
il Benincasa. Il passo successivo fu una visita che la stessa Rizzo e le due
cugine fecero a Benincasa a Castronovo, il quale non solo fu lieto di averle
sue ospiti gradite, ma colse l’occasione per invitarle a compiere insieme una
sorta di “pellegrinaggio” a Cefalonia, fino al ponte Kimonico, muto testimone
della barbarie nazi-fascista. Nell’estate successiva il futuro cavaliere si
ritrovò puntualmente assieme a Rosy Verro (residente in Lombardia) e alla
cugina Rosa Verro Moscato sul ponte della memoria. Rosellina Bentivegna non
potè andarci.
Ma rimediò il 10 novembre 2011 quando, prendendo spunto proprio dall’opera
del Benincasa, per iniziativa di chi scrive l’Istituto Gramsci Siciliano
organizzò nella sala di lettura della propria biblioteca un convegno presieduto
dal suo presidente prof. Salvatore Nicosia, cui parteciparono, oltre al nostro,
altri due reduci dell’eccidio di Cefalonia: l’ingegnere Giorgio Lo Iacono di
Piana degli Albanesi e Fortunato Basile di Baucina. Di un terzo sopravvissuto
(Salvatore Li Causi, nato pure a Baucina ma residente a Villafrati) c’erano i
familiari. Ebbene, in quella memorabile occasione furono presenti, tra molti
altri, il console di Grecia Renata Lavagnini, insigni docenti e studiosi di
lingua e letteratura greca, antica e moderna, come il prof. Vincenzo Rotolo e
Antonella Sorci (autrice di un opuscolo, Mamma torno a casa, che raccoglie le
ultime testimonianze al femminile del barbaro eccidio del 1943), il prof.
Franco Licata, il prof. Nino Conti (nuovo presidente dell’Associazione Kassar),
una numerosa delegazione dell’ANPI di Palermo “Comandante Barbato”, guidata dal
segretario Angelo Ficarra e da Giorgio Colajanni, figlio del compianto Pompeo,
l’ardimentoso siciliano che nel 1945 liberò Torino dall’occupazione
nazi-fascista. Assieme a tutti queste e molte altre personalità, le due cugine
Verro e Rosellina Bentivegna.
Vale la pena di aggiungere che in quell’occasione si apprese tramite una
ricerca del sottoscritto che il capitano Verro era stato insignito della
medaglia d’argento alla memoria. Di più, i parenti seppero che Salvatore Li
Causi (classe 1921), rimasto a Villafrati per difficoltà motorie, era stato
cuciniere del loro eroico congiunto e che, ritornato in Sicilia, un giorno
saltò sul glorioso trenino a scartamento ridotto per portare le condoglianze e
i più sinceri attestati di stima alla signora Rosalia Bentivegna, madre del
glorioso caduto. Ma appena vide la foto del suo capitano, il mio vecchio amico
Turiddu Li Causi si commosse fino alle lacrime e non potè più spiccicare una parola.
In segno di riconoscenza, prima che finisse il 2011, le due cugine Verro
andarono a ringraziare l’anziano reduce di Cefalonia nella sua umile residenza
villafratese.
Negli stessi giorni l’ANPI di Palermo annunziava solennemente la decisione
di dare la tessera onoraria a tutti i reduci di Cefalonia presenti
(direttamente o indirettamente) al Convegno del 10 novembre. Ma già prima
l’avvocato Giulio Tramontana (originario di Castronovo) aveva avanzato formale
richiesta di conferire l’onorificenza di Cavaliere all’Ordine della Repubblica
Italiana a Giuseppe Benincasa. Il 27 dicembre il presidente della Repubblica
firmava il decreto. Il 2 giugno, festa della Repubblica, nella prestigiosa
cornice del trecentesco Palazzo Sclafani, l’umile falegname di Castronovo
riceverà l’onorifico attestato. Auguri di cuore, zzu Pippi… pardon cavalier
Giuseppe Benincasa! Onore e gloria al grande presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, che pochi giorni fa ho visto sfilare commosso per le vie di
Corleone in occasione dei funerali di Stato per Placido Rizzotto e il 2 giugno
mostrerà ancora una volta la sua faccia pulita e rassicurante nelle principali
strade di Roma Capitale!
Giugno 2012
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