Sabato 4
maggio 2019 alle ore 18 presso il Teatro del Baglio di Villafrati si presenta
il volume
“Restituite la terra! I conti e i contadini senza terra. Colonizzazione feudale
e lotta per la
cittadinanza attiva” di Philippe San Marco, edizioni Diogene Multimedia. Saluti
di Franco Agnello, sindaco di Villafrati e Laura Verduci, traduttrice. Ne parleranno con l’autore
Giovanna Fiume dell’Università di Palermo, Caterina Sindoni dell’Università di Messina, Giuseppe Oddo, storico ed autore della prefazione. Interverranno Elisa Inglima, dirigente
dell’Istituto comprensivo “Beato P. Puglisi”, Giuseppina Landolina, direttrice
della Biblioteca
civica “S. Raccuglia”, Antonino Lodovisi, assessore alla cultura, Piero Cuccia presidente
dell’AUSER di Villafrati, Salvatore La Barbera, presidente del CdA del Teatro
del Baglio. Coordinerà i lavori Santo Lombino, direttore scientifico del “Museo delle Spartenze”.
Su gentile concessione, pubblichiamo la prefazione al libro scritta da Giuseppe Oddo, che ringraziamo.
Philippe
San Marco e la storia di Villafrati tra locale e globale
di GIUSEPPE ODDO
A portarmi sulle orme di Philippe San
Marco fu la lettura del suo libro, L’eredità
Siciliana: diario intimo di una ricerca genealogica, pubblicato in
italiano, con la prefazione di Giovanna Fiume, nel 2013 dall’Istituto
Poligrafico Europeo, il mio editore. L’opera racconta una sua lunga e paziente
indagine archivistica, intrapresa dall’autore (come terapia personale volta a
superare una grave crisi d’identità connessa alla sua militanza politica nel
Partito socialista) per capire chi fosse in realtà il suo bisnonno Luigi San
Marco. Dopo diversi anni di ricerche in vari archivi pubblici acclarò che Luigi
era nato a Palermo nel 1832 da genitori ignoti: della madre non riuscì a
trovare nessuna traccia; ma molte circostanze, nessuna delle quali decisiva,
lasciavano credere che il padre potesse essere il conte di San Marco, principe
di Mirto, barone di Villafrati, il mio paese.
La notizia era per me così ghiotta che
cercai subito di sapere qualcosa di più rispetto a quanto avevo letto. Appresi
così che Philippe, già alto funzionario dell’amministrazione municipale di
Marsiglia, deputato socialista all’Assemblea Nazionale di Francia, professore
associato di geografia urbana e, per qualche tempo, anche direttore dei corsi di
geopolitica dell’École Normale
Supérieure di
Parigi, disponeva ormai da alcuni anni di un pied-à-terre nel centro storico di Palermo (a pochi passi dal
Palazzo Mirto e dall’Archivio dello Stato), dove soggiornava periodicamente
assieme alla compagna per non meglio precisate ragioni di studio. Non fu
perciò difficile incontrarlo.
E realizzai che la sua
compagna era l’artista franco-svizzera Jacquiline Guillermain, autrice di
installazioni e opere d’arte plastico-figurativa, inspirate alle più raffinate
trame mediterranee, di cui si era nutrito il suo embrionale estro creativo nei
primi 15 anni di vita trascorsi in Tunisia. A dare la misura del livello di
notorietà della coppia nella società palermitana è sufficiente ricordare il
successo di alcuni eventi, che aveva visto protagonisti ora l’una, ora l’altro.
Penso alla mostra Trans Apparence
delle opere di Jacquiline (8-29 novembre 2012), ospitata dal “Centro d’Arte
Piana dei Colli” di Villa Alliata, a Cardillo; penso ad alcune iniziative
culturali e di promozione dello sviluppo locale conformi alle indicazioni della
Unione europea, cui aveva partecipato attivamente Philippe.
Inserito già nel primo
decennio del secolo negli organismi rappresentativi del Comitato Permanente per
il Partinariato Euro-mediterraneo (Coppem) di Palermo, con il quale
interagivano personalità dell’altra sponda del Mare Nostro, Philippe non perse
tempo a mettersi in contatto con l’Università degli Studi di Palermo e a farsi
apprezzare per il rigore scientifico e la capacità di approccio
interdisciplinare, di cui diede ampia dimostrazione l’8 maggio 2014 con una
relazione al corso di dottorato di ricerca per architetti: Strategie urbane e realtà geopolitiche. Il caso di Marsiglia.
Ma la sorpresa maggiore fu
per me realizzare che, dopo aver indagato sulle proprie origini siciliane,
Philippe aveva intrapreso una ricerca altrettanto appassionata sulla mia
Villafrati e la sua storia. Ne venni a conoscenza solo il 22 gennaio 2015,
quando l’incontrai per la seconda volta. Subito dopo avere accennato alla
magnificenza principesca del Palazzo Mirto (assurto alcuni anni prima alla
dignità di museo regionale, in forza di una donazione fatta alla Regione
Siciliana dalla nobildonna Maria Concetta Lanza Filangeri dei conti di San Marco,
principi di Mirto), Philippe mi fece dono, con un brillio agli occhi, di una
copia di un suo libro pubblicato a Parigi alcuni mesi prima: Rendez la terre! Conti di San Marco et
paysans sans terre de Villafrati.
Mi tornarono così, quasi per incanto, alla
mente le lucide considerazioni del direttore dell’Istituto Superiore di
Sociologia Rurale, Corrado Barberis, che avevo annotato e imparato a memoria
come l’Ave Maria nei primi anni ’90 del secolo scorso: «Delineare l’evoluzione
della società rurale significa delineare la storia della società italiana,
perché da essa sono venuti i capitali necessari allo sviluppo, e le braccia:
ben prima che l’orgoglio milanese di Cattaneo proclamasse: l’agricoltura esce dalla città, gli splendidi palazzi dei grandi comuni,
costruiti mattone su mattone con proventi fondiari, testimoniano la società
urbana figlia della rurale. E rintracciare i residui della psiche o
dell’economia contadina nei più raffinati congegni della società industriale, o
nei suoi interpreti, costituisce, ancora oggi, un’affascinante ricerca
dell’archeologia dello spirito».
Per converso, mi sovvenne
anche l’incipit di una poesia popolare siciliana, La storia di lu viddanu, che amava recitare il mio omonimo nonno
paterno: «Sapissivu la pianta d’unni veni,
a discinnenza è tutta di viddani», sapeste da dove viene la struttura della
società, la discendenza è per tutti da contadini. Parole semplici, queste, che
però rimandano ad una grande verità dimenticata. I primi nuclei di società si
cominciarono a formare nella notte dei tempi, grazie alla rivoluzione agraria.
Per coltivare i campi l’uomo passò dallo stato nomade allo stanziale, sorsero i
primi villaggi e le differenze sociali; accanto alla massa dei coltivatori, si
formarono i ceti eminenti della comunità, che vivevano a spese di coloro che producevano
i beni alimentari.
Analizzando con taglio
diacronico la comunità villafratese e il suo rapporto con la famiglia che
l’aveva fondata, Philippe, intellettuale organico al mondo urbano e periurbano
francese, aveva messo dunque a frutto le sue competenze di geopolitico per
rintracciare i segni del passato agricolo e feudale in una piccola realtà
dell’entroterra rurale del Palermitano, ormai ampiamente caratterizzata da
stili di vita e comportamenti un tempo esclusivi della città. Dovevo leggere
alla svelta il libro, mi dissi. Ma il mio proposito s’infranse subito contro il
duro scoglio delle barriere linguistiche: persino la dedica autografa, che mi
aveva appena fatto l’autore, era scritta in francese, lingua neolatina, facile
quanto si vuole, ma pur sempre straniera e da me mai studiata.
A farmi cominciare ad
entrare nel merito dell’opera fu qualche mese dopo lo stesso Philippe San
Marco, informandomi che la stava facendo tradurre in italiano da Laura Verduci
per ripubblicarla con qualche piccola modifica (resa necessaria dalle ulteriori
ricerche) e corredata, sempre che io fossi stato d’accordo, di una mia nota
introduttiva. Accettai con entusiasmo, mai mi era stata fatta proposta più
allettante! E ancora non sapevo che il libro sarebbe stato edito dalla casa
editrice bolognese Diogene Multimedia, diretta dal filosofo Mario Trombino, la
cui madre, Caterina Forte, poteva essere stata compagna di classe della mia, essendo
nate entrambe nel 1909 nello stesso quartiere di Villafrati. Man mano che
traduceva, Laura mi sottoponeva le difficoltà che incontrava nella scelta dei
termini feudali o attinenti a rapporti agrari desueti, consacrati per antica
tradizione in un siciliano arcaico, evocativo di storie di lunga durata, il cui
peso era stato immenso e l’eco appena percepibile.
Iniziò così il mio viaggio
d’esplorazione delle ragioni che avevano indotto lo studioso francese ad
avventurarsi con pazienza certosina nello studio della storia di Villafrati,
assumendola (come lui stesso aveva tenuto a precisare) a metafora della
Sicilia, che a sua volta – Leonardo Sciascia docet – è metafora dell’Italia e,
per molti aspetti, anche di una dimensione più universale. La prima cosa che mi
colpi, appena incominciai a sfogliare il testo, fu una frase del filosofo e
scrittore francese d’Algeria, premio Nobel 1957 per la letteratura, Albert
Camus: «Rendete la terra, la terra che non è di nessuno […]. Date la terra ai
poveri […]». Mi piacque, vuoi perché quella esortazione era in perfetta
sintonia con la mia ricerca (tuttora incompiuta) sui contadini siciliani che
inseguivano il miraggio della terra fin dal 1767, vuoi perché Camus aveva
sposato la causa dei coloni d’Algeria, sfruttati e bistrattati dai ricchi
proprietari terrieri francesi.
Il fatto che Philippe l’abbia scelto
come epigrafe la dice lunga sui contenuti del libro, anche perché lo studioso è
nato a Ebolowa (Cameroun) e vissuto fino a 12 anni in Gabon e nella Repubblica
Centrale Africana, dove suo padre aveva fatto carriera. Si può allora
scommettere che nelle colonie il futuro deputato socialista avesse
fraternizzato con altri bambini senza preoccuparsi della loro origine sociale
né del colore della pelle; senza mai prendere in considerazione l’ipotesi che i
suoi connazionali con quattro quarti di sangue francese nelle vene lo avessero
poi ritenuto, per i suoi tratti somatici e il suo cognome siciliano, un
«meteco» nell’accezione più spregiativa del termine. Nessuno aveva spiegato al
piccolo sognatore che l’identità siciliana era vista con sospetto persino dagli
italiani del Centro-nord. Basti ricordare che nel febbraio 1960 il grande giornalista toscano Indro Montanelli, intervistato in
Francia dalla rivista parigina Le Figaro
Letteraire, dichiarò con una disinvoltura degna di miglior causa: «Ah! La
Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete
obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravata,
siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani».
Philippe cominciò a fare i conti con i
pregiudizi razziali verso i discendenti dei «rospi» che nell’Ottocento erano
sbarcati a Marsiglia da navi provenienti dalla Sicilia dopo che la sua famiglia
tornò a risiedete in Francia. Subì assurde discriminazioni nella vita militare
e persino da deputato di belle speranze. Anche questo dovette avere un peso
nella sua scelta di avviare la ricerca genealogica nella terra di progenie,
dopo più di tre lustri di peripezie politiche, giudiziarie e private, che
l’avevano più volte portato sull’orlo del suicidio. Certo è che Philippe uscì
da quei guai a testa alta, e che i frequenti contatti con l’ex capitale
dell’Isola furono il miglior balsamo per le sue residue afflizioni. I suoi
amici palermitani gli diedero peraltro l’occasione di accostarsi e riflettere,
tra il 2012 e il 2013, sul significato più profondo delle lotte contadine nella
Sicilia del secondo dopoguerra, attraverso le lenti di un umile dirigente di
base, Giovanni Lo Dico, autore del libro Finalmente
le api mangiarono il miele. Autobiografia di un siciliano che non si rassegna.
Cosa che lo arricchì anche umanamente.
«Nel
libro "L’eredità siciliana" – scrive – ho raccontato la ricerca che
mi aveva spinto a tornare a Palermo per cercare le mie origini paterne. Ero
così risalito fino al mio bisnonno, Luigi San Marco. E a partire da lui,
attraverso sua moglie Rosaria Prestigiacomo e i loro 8 figli, avevo potuto ricostruire
la mia eredità siciliana e ritrovare i loro discendenti». Luigi morì infatti
giovane e fu sepolto in una fossa comune del cimitero dei Rotoli. Rimasta nella
miseria più nera, la vedova cercò una via scampo alla fame emigrando con i
figli in Tunisia, per restarci quanto bastasse ad accumulare il denaro
necessario a raggiungere Marsiglia, seconda tappa di un tortuoso percorso
migratorio che si sarebbe dovuto concludere nella «Merica». Il sogno americano
svani anche per responsabilità del più grande dei figli, Giovanni, che inviato
nel Nuovo Mondo dalla madre per guadagnare quanto bastasse a comprare i
biglietti di solo andata per il resto della famiglia, fece perdere ogni traccia
di sé.
I San Marco rimasti a Marsiglia migliorarono comunque le loro condizioni.
«Per me – sono ancora parole di Philippe – erano loro che contavano. Era di
loro che avevo bisogno per sapere chi fossi realmente io al di là delle
apparenze e dei giochi di ruolo. Erano loro che mi avevano permesso di
relativizzare le difficoltà e aiutato a superarle […]. Risalire fino alle
tracce dell’arrivo del mio bisnonno all’orfanotrofio di Palermo aveva
costituito per me un momento di grande catarsi. Una potente scarica emotiva
liberatrice ma che aveva in qualche modo esaurito le energie delle mie
ricerche. Avevo raggiunto il mio scopo e questo mi soddisfaceva ampiamente. Non
sentivo quindi il bisogno né il desiderio di spingermi oltre».
Ma come sempre accade nelle ricerche introspettive, vissute con ardore
missionario, il mistero della nascita del bisnonno restava per Philippe
qualcosa di simile alla siepe di Recanati sull’ultimo orizzonte
dell’autoanalisi. Se L’eredità siciliana
aveva fatto di lui un nuovo uomo, Philippe dovette rendersi istintivamente
conto che l’esortazione socratica a conoscere se stesso non passava solo dal
sentiero stretto del successivo ammonimento agostiniano: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas».
Sentiva che l’enigma della nascita del suo bisnonno non poteva essere penetrato
fino in fondo, ma solo aggirato per portarsi, nel migliore dei casi, alla
soglia della verità.
E intanto la lunga ricerca negli
archivi palermitani lo avevano fatto appassionare alla materia dell’infanzia
abbandonata, una piaga sociale che aveva afflitto a lungo la Sicilia, ma anche
la Francia ed altri paesi europei. Deciso ad approfondirne la conoscenza,
Philippe aveva partecipato ad alcuni seminari specializzati e si era
confrontato a lungo con il filosofo e storico dell’Islam Mahamed Arkoun, finché
un giorno la storica Giovanna Fiume dell’Università di Palermo non gli segnalò
un convegno internazionale, che si sarebbe tenuto a Montpellier sul tema: Enfants perdus, enfants trouvés: discours et
littérature sur l’enfance délaissée dans l’Europe d’Ancien Régime.
L’argomento era troppo importante perché Philippe se lo lasciasse sfuggire. Vi
partecipò e, dopo avere ascoltato tutte le relazioni (di cui sono riportati
autori e titoli in questo libro) si convinse che il caso del suo bisnonno Luigi
San Marco non era che un tassello più o meno simile a tanti altri dello stesso
doloroso mosaico internazionale. Il caso era definitivamente chiuso, per lui.
Poi Santo Lombino (futuro fondatore
del Museo delle Spartenze, con sede a
Villafrati, volto a ricostruire la storia dell’emigrazione dai comuni della
vasta area di Rocca Busambra), lo invitò a visitare il ridente paesino, di cui
i conti di San Marco erano stati signori feudali. Ma lui mostrò poco interesse
alla proposta. Ci ripensò dopo un colloquio con il grande storico francese
Pierre Nora, il più insigne studioso al mondo dei «luoghi della memoria», dal
quale Philippe fu incoraggiato ad accettare l’invito, asserendo che «ciò che è
accaduto realmente ha molto meno importanza di ciò che si è ricostruito». Andò
a Villafrati, ma non certo con l’animo del ricercatore di titoli di proprietà o
di scampoli di blasone perduto, bensì con la curiosità di capire meglio chi
fossero realmente quei signori, il cui qualificativo di uno dei principali
titoli nobiliari coincideva con il suo cognome.
Il risultato fu che gli si aprirono
nuovi orizzonti di ricerca nel campo della microstoria. E, quasi a volersi giustificare
dell’audace incursione nel territorio impervio di una disciplina che in Francia
aveva tra i suoi massimi cultori gli studiosi formatisi alla scuola Fernand
Braudel, Philippe sentì il bisogno di riportare in epigrafe, sotto le parole di
Albert Camus, che invitavano i proprietari terrieri francesi che erano
diventati tali in Algeria a restituire la terra agli algerini, anche una frase
dello storico parigino Ivan Jablonka: «Io sono uno storico come Enea che lasciò
Troia in fiamme con il padre sulle spalle. Sono uno storico per ripristinare il
mondo».
Philippe prese a ricostruire la
storia di Villafrati in punta di piedi, ma con la consapevolezza di appartenere
comunque alla cultura francese, che lo legittimava a scrivere: «Cercando di
seguire da più vicino possibile la famiglia dei Filangeri un cui membro aveva
giocato un ruolo di fondamentale importanza dalla nascita di Luigi San Marco,
circoscrivendo questa ricerca nel piccolo territorio di Villafrati, si trattava
di un lungo viaggio nel tempo che iniziava per me e dal quale non sarei rimasto
indenne, cosciente da quel momento in poi di essere a ogni modo l’erede di una
storia complessa, spesso tortuosa, colma di speranze sempre tradite […]. Proprio
come spesso accade per comprendere una piccola storia occorre ricollocarla in
un contesto più ampio. E al contrario la storia prende spesso il suo senso
quando è possibile incarnarla e radicarla in dei personaggi e dei territori. In
ogni caso di ascriverla nella memoria lunga degli uomini, quella di cui sono spontanei
portatori al di là del sapere accademico, poiché si tratta nel loro caso di un
corpus storico autorevole e che serve da cornice ai loro comportamenti
quotidiani. È per questa ragione che in questo libro passerò da una scala
all’altra in quanto tutto è indissociabile e ogni elemento rischiara l’altro
vicino».
Armato di questo metodo, lo studioso
francese non fece molta fatica per concludere che Villafrati doveva essere
raccontata come metafora della Sicilia, sia per i suoi rapporti con il
capoluogo di provincia, sia per la sua configurazione sociale. Naturalmente,
anche se lui non lo specifica, la Sicilia cui si riferisce è quella del feudo e
del grano, che ha stupito non pochi viaggiatori stranieri del Settecento e dell’Ottocento,
inclusi i francesi, da Jean Houl (che pure era più interessato agli aspetti
pittoreschi) a René Bazin (futuro accademico di Franchia). È la Sicilia che nel
1876 era stata riassunta così dal grande geografo anarchico francese Élisée Reclus:
Si sa che la Sicilia fu in antico la
predilezione di Cerere: è là, nella pianura di Catania, che la buona Dea
insegnò agli uomini l’arte di arare il suolo, di spandervi i semi, di tagliare
la messe. I siciliani non hanno dimenticato le lezioni di Demeter, poiché il
suolo dell’isola per più che la metà è coltivato a cereali, ma convien dire che
non han guari migliorato il sistema di coltura dalla Dea insegnato in epoche
favolose. Ché, anzi, è loro presso a poco impossibile di far meglio che i loro
antenati, poiché in virtù del loro contratto col nobile proprietario, erede del
feudatario normanno, i coltivatori sono nell’obbligo di eseguire l’antica routine
dei lavori. Quasi tutti i loro strumenti sono di forma primitiva, i concimi
sono poco adoperati, e dopo il seme è nella terra, il contadino lascia la cura
del campo alla buona natura.
Ora, l’economia di questo scritto non
consente di scendere nei particolari di un lavoro bene articolato e lucido come
quello del San Marco, ma qualche breve considerazione bisogna pur farla,
prendendo spunto dalla sua narrazione. Il primo vero salto di qualità i
Filangeri, da secoli in corsa verso i più alti ranghi aristocratici, lo fecero
nel Settecento, quando attorno alla masseria di Villafrati (acquistata all’asta
nel 1596 dal loro antenato Vincenzo Spuches, giudice di Gran Corte) cominciarono
a costruire un villaggio abusivo che «per sola pietà del Sovrano», non fu poi
(tra il 1753 e il 1755) demolito. Pietà attenuata dal fatto che l’autore
dell’abuso disponeva di una licenza di costruzione in una località diversa
(Chiarastella) rilasciata nel 1602 all’antenato che pochi anni prima si era aggiudicato
all’asta l’area in cui stava sorgendo il nuovo abitato. Pietà discendente da un
preciso calcolo della Corona che, sanando l’abuso, incassava dei tributi
straordinari, favorendo nel contempo l’incremento della cerealicoltura e la
bonifica di un territorio infestato da malfattori, che spesso alleggerivano le
cordate (retini) di sette muli
carichi di grano destinato all’esportazione verso paesi stranieri o i porti
della Spagna, da cui la Sicilia era appendice quasi coloniale. Senza
considerare che, aumentando il vassallaggio dei conti di San Marco, crescevano
anche le entrate del regio fisco.
Ecco, già i temi dell’abusivismo e
della successiva sanatoria degli abusi (accordata negli stessi anni anche ad
altri baroni) fanno del caso di Villafrati metafora della Sicilia e di una
dimensione molto più ampia, che coinvolgeva gli interessi della Corona di
Spagna. Se poi facciamo focus sulla vicenda dei coloni che, inseguendo il
miraggio della terra, nel tempo sono approdati nello «Stato» di cui erano
signori i conti di San Marco, la musica non cambia. A Villafrati, come altrove
nell’Isola, viene smentito il vecchio luogo comune che vuole la Sicilia feudale
socialmente bloccata: «non c’è mai stata alcuna società i cui strati fossero
socialmente chiusi o in cui la mobilità nelle sue tre forme – economica,
politica e professionale – non sia stata presente», afferma giustamente il
grande sociologo russo-americano Pitirim Aleksandrovich Sorokin.
I riveli di anime e beni fatti
eseguire da Vittorio Amedeo di Savoia, divenuto re di Sicilia in forza del
trattato di Utrect, attestano che nel 1714 a Villafrati risiedevano quindici
famiglie (fuochi) per un totale di 47 persone (anime). Quarant’anni dopo non
era più in vita nessuno dei capi famiglia del 1714. Eppure, grazie a nuove
ondate migratorie, la popolazione era articolata in 171 fuochi e 637 anime,
delle quali 328 (51,49%) maschi e 309 femmine. Nel 1798 raggiunse addirittura
1.486 abitanti, ma lo spaccato sociale, a causa degli iniqui rapporti
produttivi in agricoltura e della piaga dell’usura, era notevolmente cambiato.
I discendenti del capo famiglia del 1714 meno disagiato (Natale d’Oddo) erano
ormai ridotti allo stato di “poveri e miserabili”; un arrampicatore sociale
(Luigi Traina), figlio di gabelloto era diventato prima governatore del conte
di San Marco e poi affittuario dell’intera baronia di Villafrati e monopolista
del credito usuraio, che gli consentì di appropriarsi delle case e dei terreni
di decine e decine di contadini, che su quegli immobili pagano il censo ai
Filangeri.
A prescindere dai casi individuali,
sul finire del secolo dei lumi le masse contadine di Villafrati erano
immiserite al punto che i loro bambini si aggiravano per le strade cenciosi e
quasi nudi; chiedevano insistentemente l’elemosina ai viandanti e rubavano loro
anche gli ossi spolpati, quando si fermavano per mangiare e far riposare i
cavalli nella squallida locanda detta «fondaco». Fu quello che successe il 9
ottobre 1793 a Carlo Gastone, conte della Torre di Rezzonico, e Philippe non
manca di ricordarlo. Ma a Rezzonico non andò meglio durante quello stesso
viaggio ad Alcamo, cittadina con ben altra storia e tutt’altre risorse
territoriali. Il vero è che a quell’epoca la fame non risparmiava nemmeno le
capitali europee. Da Heinrich Eduard Jacob sappiamo che l’assalto alla
Bastiglia il 14 luglio 1789 riuscì perché si era sparsa la voce che dentro la
solida fortezza potessero trovarsi le prove di un fantomatico «complotto del
grano», di cui sarebbero stati responsabili noti personaggi vicini alla Corona
di Francia. Su proposta di Danton nel 1793 a Parigi si cominciò a produrre il pain d’egalité, integrale e di pessima
qualità, uguale per tutti. E gli uomini del terrore, per esorcizzare lo spettro
della fame organizzarono una festa di ringraziamento per il raccolto:
«Roberspierre, vestito d’azzurro, con un’espressione rigida e astratta sul
volto, percorse lentamente, a piedi, le vie di Parigi dietro una coppia di
buoi». Recava in magno un mazzo di grano e papaveri artificiali.
Ho voluto raccontare questi
particolari, non già per amore del pittoresco, ma per ricordare che fino agli
anni della rivoluzione francese le condizioni di Villafrati e della Sicilia non
erano troppo diverse da quelle del resto dell’Europa. Le divaricazioni
successive – è lo stesso Philippe a ricordarlo – sono figlie di ciò che nello
scorcio del secolo del Settecento in Francia e delle ripercussioni che ebbero
nell’Isola le guerre napoleoniche. «Certo – scrive l’autore – al prezzo di
violenze eccessive, quindi da condannare, la rivoluzione francese ha permesso
la fine effettiva del feudalesimo e ha operato un trasferimento massiccio e
rapido di ricchezza a vantaggio di una borghesia imprenditoriale, la stessa che
assicurerà in seguito il passaggio allo sviluppo industriale. È proprio quello
che è mancato alla Sicilia e che spiega oggi il suo debole inserimento
nell’economia contemporanea, seguito da disoccupazione ed emigrazione di massa».
A differenza delle altre regioni d’Italia, «la Sicilia non aveva conosciuto l’esperienza del giacobinismo, né la
presenza delle armate di Napoleone, portatrici nel bene e nel male dello spirito
della Rivoluzione». Fu perciò già tanto se il vicerè Domenico Caracciolo, già ambasciatore del
regno borbonico a Parigi e amico di D’Alambert, riuscì a ridimenzionare
l’eccessivo potere dei baroni sui vassalli e le amministrazioni locali e a
sopprimere il Tribunale del Santo Uffizio. Vale la pena di aggiungere che il
suo successore, principe di Caramanico, anche lui portavoce dell’assolutismo
illuminato, si intestò un ambizioso programma di distribuzione delle terre
pubbliche ai poveri. Ma a fare la parte del leone furono, ovunque nell’Isola, i
ricchi borghesi aspiranti al blasone e la vecchia aristocrazia baronale. Le
briciole toccate agli zappaterra cambiarono presto padrone, perché, come ha
scritto Denis Mack Smith, «o i contadini non potevano
pagare i canoni terrieri e non erano nemmeno in grado di procurarsi il capitale
di base necessario per una coltivazione indipendente; oppure gli apprezzamenti
di terreno erano troppo piccoli e troppo distanti; oppure le leggi venivano manipolate
a proprio vantaggio dai notabili di ciascun villaggio».
Amato dal popolo siciliano, il vicerè Caramanico
morì a Palermo l’8 gennaio 1795, forse avvelenato. Gli successe nella carica ma con il titolo di
presidente del regno l’arcivescovo di Palermo Filippo Lopes Roio, che
ripristinò un clima reazionario volto a reprime ogni anelito di libertà e
giustizia sociale e a impedire la formazione di partiti filo-francesi. Stroncò
sul nascere la congiura repubblicana del giurista Francesco Paolo Di Blasi,
convinto sostenitore delle «idee di Rousseau sulla giustizia sociale». Di Blasi
fu condannato alla decapitazione preceduta dalla tortura, nel tentativo di far
costituire «li correi che son fuggiaschi». La sentenza fu eseguita il 20 maggio
1795.
Non può allora sorprendere se la Sicilia fu
l’ultimo regno d’Europa ad abolire la feudalità e se la nuova costituzione del
1812, opera quasi esclusiva dell’aristocrazia e dell’alto clero d’estrazione
delle stesse famiglie dominanti, non abbia poi avuto in certe realtà come
Villafrati nessun effetto dirompente. «Era l’aristocrazia – nota Philippe San
Marco – che continuava a possedere e comandare “come prima” una grande parte
dell’isola. L’abolizione del feudalesimo era stata dunque a vantaggio esclusivo
dell’aristocrazia e i contadini rimanevano esclusi dalla proprietà fondiaria». Questa
anomalia tutta siciliana, che trova qualche modesto riscontro in certe aree
della Calabria e di altre regioni meridionali, condiziona le vicende successive
della storia d’Italia. E i contadini poveri che vi partecipano (penso
all’epopea garibaldina del 1860, alla rivolta palermitana del 1866, ai fasci
dei lavoratori, all’emigrazione transoceanica otto-novecentesca, alle
occupazioni di terra del primo e del secondo dopoguerra) sono sempre animati
dalla fame di terra, indipendentemente dall’ideologia di coloro che di volta in
volta li guidano (socialisti, cattolici, combattenti, comunisti).
I contadini senza terra di Villafrati
sono stati in ogni epoca tra i più combattivi dell’Isola, anche perché ancora
alla fine del primo decennio del Novecento la presenza del feudo era attualità
fin troppo opprimente. L’inchiesta parlamentare del professore Giovanni
Lorenzoni evidenzia che la risorsa fondamentale era l’agricoltura. Soltanto due
latifondi del conte di San Marco occupavano il 54,5% della superficie agricola
del territorio comunale. Nel rimanente 46,5% non c’era una sola ara di terra
libera dai pesanti canoni enfiteuitici (censi) che si pagavano al conte di San
Marco. E i censi gravano inoltre su tutte le case d’abitazione. I salari dei
braccianti erano tra i più bassi dell’Isola. Da altre fonti sappiamo che tutte
le leve del potere locale erano in mano agli uomini dell’amministrazione ex
baronale. Davanti al severo portone di ferro del complesso del Baglio (dove la
famiglia padrona passava di solito la villeggiatura estiva), c’era sempre una
paurosa ressa di campieri armati. Ma tutto questo non scalfiva l’immagine
positiva degli ex feudatari che, quando venivano in paese, elargivano un po’ di
grano o di denaro alle famiglie più povere.
Il caso di Villafrati ci può inoltre
aiutare ricostruire la genesi della mafia rurale e i suoi rapporti col mondo
urbano. Qui la mala pianta cominciò a prender forma nella prima metà
dell’Ottocento, per precisi calcoli degli ex baroni, che affidavano
l’amministrazione del proprio patrimonio a personale formatosi in epoca feudale
e rotto ad ogni sorta di prepotenza. È un fatto che, sostenuta da tali
personaggi, donna Vittoria Filangeri, contessa di San Marco, tra la fine degli
anni Trenta e l’inizio del decennio successivo usurpò e fece includere a suo
nome nel nuovo catasto le terre comunali di Costa d’Ape, dove pascolavano, sin
dall’epoca della fondazione del paese, le capre che davano il latte agli
orfanelli e ai projetti (bambini abbandonati). Da lì ad arrogarsi il
diritto di vendere il suolo pubblico all’interno del paese il passo fu breve. E
nessuno poteva ribellarsi.
Scoppiata la rivoluzione del 1848,
dopo una fase iniziale di neutralità, al fine di tenere a bada quelli che lei
continuava a chiamare “vassalli”, la nobildonna fece convertire i suoi più fidi
dipendenti alla causa liberale per rimpossessarsi del comune, salvo a farli
rientrare nei ranghi borbonici quando la Sicilia stava per essere riconquistata
alla Corona dal generale Carlo Filangeri, principe di Satriano. Nella primavera
1849, quando fu proclamato il disarmo generale, donna Vittoria pregò il
Satriano (che, fra l’altro, una ventina di giorni prima era stato suo ospite
gradito nella palazzina baronale dentro il Baglio di Villafrati), ed ottenne
subito «il permesso di detenzione ed asportazione d’armi» per sette salariati,
un soprastante e sei campieri, i cui cognomi sono rimbalzati, anche di recente,
tante volte agli onori della cronaca giudiziaria per fatti di mafia.
Accanto a questi cognomi nel tempo si
riscontrano altri ben più noti, che vengono pure foraggiati dall’amministrazione
del Conte di San Marco. Basti ricordare don Piddu Fontana, l’assassino del
direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo di San Giovanni e il suo
degno allievo Gaspare Tedeschi, già imputato come esecutore materiale
dell’omicidio di Giuseppe Petrosino, il poliziotto italo-americano che stava
indagando sulla Mano nera. È appena
il caso di aggiungere che Fontana da Villafrati emigrò in America, dove divenne
elemento di spicco della Mano nera e
in forza di tale potere criminale attrasse nella sua orbita Tedeschi, futuro
sindaco del paese. Il quale nel 1893 era stato uno dei capi più autorevoli del
locale Fascio dei lavoratori e, alla fine del secolo, aveva cominciato a
bruciare le tappe di una brillante carriera mafiosa, fondata soprattutto sull’esportazione
clandestina di manodopera e prodotti agro-alimentari siciliani, che facevano la
spola tra i porti di Palermo, Tunisi, Marsiglia e New Jork (gli stessi scali
presi in considerazione nel progetto di riscatto della giovane vedova Rosaria
Prestigiacopo, bisnonna di Philippe). Ma restano pur sempre le famiglie dei
campieri del 1849 ad assicurare tuttora la continuità della mafia.
È vero, ben individuate genealogie di
“uomini d’onore” si riscontrano anche in alcuni centri siciliani mai sottoposti
al dominio feudale: il che fa pensare che non sia stata soltanto la persistenza
dell’economia latifondistica a generare l’idra parassitaria con cui purtroppo
continuiamo a fare i conti in questo travagliato inizio del terzo millennio. Ma
la grande proprietà – indipendentemente dalla sua connotazione aristocratica,
ecclesiastica, borghese o demaniale – è stata almeno una delle principali cause
del radicamento della mafia nelle campagne. E, a giudicare dalle fonti da noi
indagate, la mala pianta attecchiva bene nell’orto della mala signoria. Nei
comuni dove la proprietà feudale aveva ancora un grosso peso, a complicare
l’esistenza ai contadini senza terra e alle loro famiglie contribuiva
l’assenteismo dei padroni, che sperperavano i proventi fondiari in città o
all’estero.
Nei feudi (si continuavano a chiamare
ancora così i latifondi ex-feudali) facevano solo brevi capatine per andare a
caccia. Per il resto dell’anno, quei signori preferivano, come i loro avi,
trottare a Palermo, «in splendide carrozze e livree». Le
loro terre erano gestite dagli amministratori e dagli imprenditori privati
detti gabelloti, che prendevano in affitto interi feudi e, dopo averli
lottizzati, li concedevano a metateria o a terraggio (affitto con
un gravoso canone in natura), ai borgesi, «la classe più operosa di
cittadini, ma la più oppressa e tirannizzata dai principali fittuari». Così
aveva scritto Paolo Balsamo nel 1792; e così continuò ad essere stancamente
fino al 1950, quando fu approvata la legge regionale di riforma agraria, frutto
di una lunga e dura stagione di lotte per la terra, considerata dagli
osservatori più attenti la più grande epopea contadina di tutta la storia
sociale di Sicilia.
Epopea che vide larghi strati del
popolo di Villafrati prodursi, anche nei comuni della zona, in una guerra di
liberazione dagli ultimi retaggi del feudo. Lottarono e in parte vinsero, i
contadini senza terra di Villafrati: la famiglia padrona uscì di scena, la
proprietà ex-feudale fu smembrata, in larga parte per vendite ad acquirenti dei
paesi vicini. I lotti assegnati, con il metodo del sorteggio, furono pochi e di
proporzioni così modeste da indurre assai presto gli assegnatari ad andarsi a
cercare il lavoro nelle fabbriche del Nord o all’estero, dove erano già
emigrati molti dei loro compaesani, ignorati dalla Dea bendata. Storia dolorosa
quella degli ex vassalli del conte di San Marco. Storia di un popolo che ha
smarrito molti tratti della sua identità rurale e che non ha potuto, perciò,
nemmeno far tesoro, nell’ultimo trentennio, delle politiche comunitarie di
sviluppo locale. Storia di una comunità che nella lunga durata dei secoli non
ha saputo esprimere mai una borghesia progressista, e se qualche borghese
illuminato ci è pure stato, ad un certo momento si è trasferito in città.
Il solo personaggio positivo
incontrato da Philippe nella storia di Villafrati è l’ingegnere Gaetano
Mondino, palermitano ed ex ufficiale garibaldino sposato con una villafratese,
che negli anni ’70 dell’Ottocento tentò di dar voce ai diritti e ai bisogni dei
“villici”, trattati in modo disumano dai gabelloti. In quell’esempio, isolato e
osteggiato dai prepotenti, l’autore riscontra qualcosa di simile di ciò che lui
aveva cercato di fare a Marsiglia. Cade a proposito ricordare che a Gaetano
Mondino (sconosciuto dalla stragrande maggioranza dei villafratesi), i suoi
parenti acquisiti in odore di mafia dedicarono il vicolo più stretto e corto
del paese, detto Vanidduzza stritta, e
per giunta con il cognome sbagliato: “Mondini”. Circostanza, questa, che
probabilmente Philippe ignora, ma credo che non si scandalizzerebbe se qualcuno
gliela riferisse, atteso che, nonostante i lunghi anni d’inferno vissuti in
Francia, ha deciso di dedicare il libro alla sua bisnonna Rosaria
Prestigiacomo, perché aveva avuto il coraggio di portare la numerosa prole
definitivamente fuori della Sicilia.
La conclusione del libro è però tutt’altro che
rassegnata. Anzi, da vecchio combattente, Philippe arriva a dire, che il suo
racconto su Villafrati, «un piccolo fazzoletto di terra siciliana, è portatore
di un messaggio a vocazione universale. Quello di un’esigenza che impone in
tutti i tempi a ciascuno di noi di non piegare la schiena, d’assumerci le
nostre responsabilità personali e di essere esigenti nei confronti delle donne
e degli uomini che ci rappresentano politicamente. Lo spettacolo della
volgarità e della mediocrità che dominano oggi, prelude, senza una sana
reazione, al peggio».
Da villafratese della diaspora sento il
bisogno di aggiungere che il paese ha saputo far tesoro della sua storia, se è
vero che il sindaco Francesco Nicastro, per quanto poco istruito, ha capito in
tempi non sospetti che il complesso del Baglio di Villafrati, già simbolo di un
potere feudale sopravvissuto allo stesso regime fascista, poteva diventare bene
comune dei villafratesi, emblema del riscatto culturale della comunità e centro
polivalente a servizio dello sviluppo zonale. Ebbene, Nicastro ha acquisto il Baglio.
Uno dei magazzini del severo complesso baronale, che ai tempi della mia infanzia
e prima giovinezza ospitava i monaci questuanti, è divenuto teatro
sperimentale, che peraltro ha prodotto spettacoli che hanno fatto il giro del
mondo. Accanto al Teatro del Baglio è sorto un laboratorio teatrale e un altro
di musica. Pochi mesi fa è stato pure inaugurato il Museo zonale
dell’emigrazione detto delle Spartenze. Ubicata nella palazzina del Baglio già
da anni, il 18 marzo 2018 la Biblioteca comunale è stata intestata al
villafratese illustre (pedagogista, storico, etnologo, animatore teatrale)
Salvatore Raccuglia. Alla scoperta dell’instancabile intellettuale villafratese
dimenticato ha contribuito in modo decisivo un convegno tenuto, appunto, dentro
il Baglio il 26 gennaio 2016, i cui atti sono stati alla fine dell’anno con il
titolo Cultura, Scuola e Tradizioni
popolari in Salvatore Raccuglia (1861-1918), a cura di Giuseppe Oddo e Caterina Sindoni.
A tale evento ha partecipato anche Philippe,
che concluse l’intervento con queste parole: «In Francia potremmo immaginare
che questo baglio sia stato distrutto nel 1789, raso al suolo, affinché questo
simbolo stesso scomparisse dalla memoria. Grazie al comune di Villafrati per
aver restituito questo baglio alla popolazione per destinarlo alla cultura, il
cui teatro ha avuto come consulente artistico e primo direttore Enzo Toto,
vincitore del Premio Scenario 1994-95, nonché autore e regista di diversi
spettacoli, uno dei quali, La Spartenza,
è stato presentato per la prima volta a Villafrati, da dove è stato poi portato
in diverse città europee e persino a New Jork. E i giovani attori del Teatro
del Baglio di Villafrati hanno così raccontato i diari di Tommaso Bordonaro,
contadino di Bolognetta emigrato con la famiglia nel New Jersey, cosa che
testimonia con forza che l’approfondimento dell’identità non significa affatto
ripiegamento su se stessi ma, al contrario, apertura al mondo».
La comunità villafratese non poteva
ricevere omaggio più bello da parte di un cittadino straniero, forse
discendente dell’ex signore feudale del paese. La pubblicazione del nuovo libro
costituisce, per i suoi contenuti, un altro prezioso regalo di Philippe a
Villafrati e alla Sicilia, che vale la pena di leggere e a far conoscere
soprattutto alle nuove generazioni, cui è per legge di natura affidato il
compito di curare e far germogliare le radici del futuro.
Giuseppe
Oddo
Palermo
29 maggio 2018
1 commento:
Straordinario articolo, per visione storica, orientamento politico, lucidità di scrittura, passione culturale
Salvatore Nicosia
Posta un commento