Salvatore Lupo e Giuseppe Principato |
GIORGIO RUTA
La storia è un pretesto per porre una domanda: come sta Cosa nostra oggi?
Sentendo lo storico Salvatore Lupo presentare il suo ultimo lavoro (“La mafia.
160 anni di storia”) verrebbe da rispondere: è viva ma è in uno stato comatoso.
È una vivisezione minuziosa della mafia siciliana quella che ieri
pomeriggio è stata eseguita allo Steri di Palermo da Lupo, insieme al
procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, il professore Giovanni Fiandaca e
il politologo Alfio Mastropaolo.
Si parte dalle origini del fenomeno, si ripercorre il Novecento, ma poi si
arriva a quell’interrogativo: qual è lo stato di salute di Cosa nostra nel
2019?
«La mia esperienza mi ha portato in Calabria e a Roma e penso che da lì ho
capito meglio la mafia siciliana — è l’esordio del magistrato Pignatone che per
tanti anni ha lavorato nella procura palermitana — Sono convinto che in questo
momento storico la mafia siciliana attraversi un periodo di difficoltà, mentre è
in atto un’espansione pericolosissima della ’ndrangheta», ragiona il
procuratore.
Da come sta a che forma ha Cosa nostra il passo è breve. «Nella mia
esperienza le organizzazioni mafiose non sono composte solo da pecorai, ci sono
sempre uomini d’affari. La mafia è un fenomeno interclassista, la raffigurazione
dei mafiosi come pecorai è una strumentale menzogna», riflette Lupo. Si ragiona
su quali siano i contesti da cui prende linfa vitale e su quali fessure riesce
a inserirsi per avere spazio. La risposta è l’intermediazione, come racconta il
politologo dell’università di Torino, Alfio Mastropaolo: «La mafia ha la grande
risorsa di mediare, mette in contatto mondi diversi. Viviamo in un periodo in
cui l’economia è in stagnazione e in cui il know how della criminalità
organizzata acquisisce un valore aggiunto», dice il docente indicando le
vicende romane di “Mafia capitale”.
E anche il rapporto con la politica è fatto di mediazione. Le cronache
giudiziarie, siciliane e non solo, sono piene di scambi tra mafia e
amministratori. Il procuratore Pignatone ripesca dalla sua memoria due episodi.
2005, intercettazioni tra due fedelissimi di Bernardo Provenzano: «In una
ventina di discussioni litigano per chi deve essere candidato a un seggio per
il consiglio comunale di Palermo perché non riuscivano ad eleggere più di una
persona». Il secondo ricordo è più recente ed è datato 2010: Calabria, elezioni
regionali. «Molti candidati vanno a casa del super boss della zona jonica della
’ndrangheta a chiedere voti in cambio di promesse. Alla fine il malvivente
parla con il suo collaboratore più stretto e gli dice “Noi gli diamo i voti, li
eleggiamo e poi fanno quello che vogliono”». Insomma, la mafia fallisce spesso,
anche perché il suo spazio «non è quello di far cambiare i risultato
elettorale, ma quello di entrare in contatto con gli eletti e scambiare
risultati», come dice Lupo.
Si va a finire lì, nell’attualità del processo trattativa Stato-Mafia.
«L’autore del libro — ragiona Fiandaca — mette in evidenza come dai
contatti tra Mori, Ciancimino e De Donno non si può affatto desumere l’esistenza
di un programma politico».
Gli fa eco Lupo che si toglie un sassolino dalle scarpe: «Qualcuno mi ha
detto che sarei entrato a gamba tesa in un processo, ma che dice? Certo non
vado in tribunale a protestare come alcuni esagitati hanno fatto per l’assoluzione di alcuni imputati».
La vivisezione è completata. La relazione finale sullo stato di salute la
potrebbe riassumere Fiandaca con questa considerazione: «È verosimile che Cosa
nostra sia in una situazione di profondo declino. Ma questa prospettiva non è
accettata da una parte della magistratura appartenente all’antimafia radicale
che tende, insieme a una parte della società civile, a drammatizzare una nuova
mafia potente di cui non abbiamo contezza».
La Repubblica Palermo, 6 aprile 2019
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