Andrea Camilleri |
SIMONETTA FIORI
Dopo la campagna per ripristinare la prova scritta alla maturità,
cancellata dal ministro Bussetti, “Repubblica” appoggia l’appello sostenuto
dallo scrittore per potenziare la materia nelle scuole Perché le nuove
generazioni conoscano gli anni bui che hanno preceduto la conquista della
democrazia
ROMA - «Qui va bene? Sto procedendo
dritto?». Andrea Camilleri si fa condurre lungo il margine bianco del foglio,
la grafia sorvegliata non più dagli occhi ma dalla memoria dello spazio. E
anche il rito della firma sotto il Manifesto per la storia acquista la
solennità dei gesti importanti, in un’epoca in cui tutto sembra aver perso
gravità. «Si dice erroneamente che la storia sia magistra vitae. Ma
noi continuiamo ad agire come se la storia non ci avesse insegnato nulla. E
quindi a ripetere errori già fatti in passato».
Parla lentamente Camilleri, quasi con una
scansione musicale, ormai abituato a pensare e scrivere dentro il perimetro
dell’oralità. «Vico parlava di corsi e ricorsi storici e aveva perfettamente
ragione. La storia si ripete e qualcuno ha aggiunto che la seconda volta è una
farsa. No, non è mai farsa. Può capitare di imbattersi in una farsa tragica,
che è tutta un’altra cosa».
Siamo in un momento di farsa tragica?
«Ci troviamo a vivere in un’epoca
singolare segnata da una parte da un fascismo rinforzato, dall’altra da un
fascismo trasformato. Quella di Salvini – non mi stancherò mai di dirlo! – è
una forma di fascismo travestito. È lui l’uomo pseudo forte che batte i pugni,
chiude i porti e si regola con una violenza anche di espressione. I ragazzi non
sanno che questo è un ritorno mutante del fascismo. Non lo sanno perché nessuno
gli ha detto cosa è stato il regime. La storia non ci insegna nulla, ma ci
ricorda tutto. E allora la nostra è una perdita di memoria volontaria».
Forse è anche per opporsi alla perdita di memoria che lei ha scritto molti
romanzi storici. Un movente dichiarato è stato restituire voce ai vinti.
«Questa è la prospettiva dominante. Però
ne Il birraio di Preston mi sono divertito a scrivere l’ultimo
capitolo intitolandolo “Capitolo primo”: la stessa storia è narrata dalla parte
dei vincitori. La complessità dello scrivere la storia è proprio questa: riuscire
a tenersi imparziale tra vincitori e vinti».
In “La strage dimenticata”, uno dei suoi primi libri, c’è una intenzione
dichiarata contro la storiografia ufficiale. Lei scrive «Non ho la testa né lo
stomaco di certi storici…».
«Aspetti un momento, la testa dello
storico non ce l’ho perché non sto a spaccare il capello in quattro, ma il
capello intero tra le mani lo voglio avere…».
«… non ho la testa di certi storici che basano buona parte della loro
scienza sul fatto che i morti non possano replicare».
«Questo sì, io ho sempre voluto far
replicare i morti: un piccolo modo per chiedere scusa. Ma è anche un modo per
tenere vivo il racconto storico. Se noi invece aboliamo la storia non
parlano più né i morti né i vivi. Non parlano più né vincitori né vinti. Non
parla più nessuno».
Kundera sostiene che i romanzi indagano il tempo contro la storia, nel
senso che ricercano un’altra storia. Qual è la verità che la letteratura
aggiunge alla storia?
«La verità va cercata nell’esercizio di
libertà, nella possibilità da parte dello scrittore di muoversi sul terreno
delle ipotesi parallele a un evento. Perché il romanzo storico è una storia di
invenzione basata su alcuni fatti autentici. Quando scrissi Il re di Girgenti, ambientato
nel primo quindicennio del Settecento, non riuscivo a trovare alcuni documenti
preziosi. E allora pazzescamente me li sono scritti tutti io, in parte in
latino con l’aiuto di mia moglie Rosetta e in parte in spagnolo. Tutti falsi. A
questo punto se ne viene lo storico Giovanni De Luna che mi dice: “sono
invidioso di quello che hai fatto perché è il sogno di noi storici...”».
È l’invidia dello studioso verso il romanziere. A lei piace giocare tra
vero e verosimile. Al principio dei suoi romanzi storici c’è un documento
autentico.
«Ecco, il verosimile: potrebbe essere vero
e invece non lo è. Però l’artificio nasce sempre da un appiglio storico fondato
perché altrimenti sarebbe finzione pura. Il romanzo storico deve avere una base
di autenticità per poi andarsene per i fatti suoi. Solo così sei messo nelle
condizioni di scoprire altre verità possibili, ma vai a sapere…».
Qual è il maggior merito che si riconosce in questa rivelazione?
«Aver cercato di attenermi il più
possibile alla realtà: sono partito sì per la tangente, ma avendo sempre una tangente
piccola. Per questo ho sempre detestato Il Gattopardo, che è un
romanzo profondamente antistorico: io sono sempre stato dalla parte del povero
inviato piemontese che rappresenta il nascente Stato unitario, mentre Tomasi di
Lampedusa lo sbeffeggia impudicamente. La mia evasione dai fatti accaduti
è sempre stata contenuta, mai uno stravolgimento totale. Non me ne sono mai
sentito autorizzato».
E quale verità occultata dalla storia ufficiale è più orgoglioso di aver
rivelato?
«Io mi occupo di storie piccole, che messe
insieme alle piccole storie di altri scrittori potrebbero formare una grande
storia. La strage dimenticata era davvero dimenticata: a Porto Empedocle nel
1848 il maggiore Sarzana riuscì a liberarsi in un sol colpo di 114 detenuti,
soffocandoli e bruciandoli vivi in una cella comune. E io sono stato capace di
ritrovare l’atto di morte di 114 persone. Ciascuno con nome e cognome, e
un’unica definizione: “servo di pena”. Ero così orgoglioso di aver trovato
quelle carte che volevo ne scrivesse Sciascia».
Perché?
«Ero convinto che solo Leonardo potesse
farlo con la sua bravura. Gli portai a casa tutti i documenti: “È una storia
bellissima”, mi disse. “Ma perché non la scrivi tu?”. “Ma Leonà non saprei
scriverla come la scriveresti tu”. “Ma perché la vuoi scrivere come la
scriverei io? Scrivila a modo tuo”. E così feci».
Tra i suoi romanzi storici quello che ha avuto meno successo è “La presa di
Macallè”, ambientato nell’anno della guerra fascista in Etiopia. C’è una
relazione tra la modesta ricezione del racconto e la cattiva coscienza di noi
italiani verso quei crimini?
«Non so se ci sia una relazione. Forse non
ho saputo dosare le cose, avendola scritta spinto dalla suggestione
dell’Eros e Priapo di Gadda. Su Repubblica il mio amico Stefano
Malatesta lo liquidò come un romanzetto pornografico. Esagerò un po’, ma non
escludo di avergli offerto il fianco. Però il fraintendimento mi dispiacque
molto. Perché il bambino protagonista del romanzo ero io. E La presa di
Macallè è un libro tragico, non erotico. A dieci anni feci domanda a
Mussolini per partire per la guerra di Etiopia. Volevo ammazzare anche io
un abissino, come il personaggio di Michelino. E Mussolini mi rispose dicendomi
che ero troppo bambino e che non sarebbe mancata occasione. E infatti, cornuto,
ci avrebbe condotti tutti in una guerra più grande».
Quel libro è del 2003. Perché ha aspettato settant’anni prima di scrivere
la sua storia? L’impressione è che gli italiani facciano fatica a confrontarsi
con la colonizzazione fascista in Africa.
«Questo è certo. Italiani brava gente è
stato solo un modo di dire per distrarci dal nostro operato criminale. Quanto
al ritardo con cui la mia generazione ha fatto i conti con il ventennio nero,
va cercata nella grande illusione lungamente coltivata nei decenni successivi:
eravamo persuasi che il fascismo fosse definitivamente morto, tanto da
commettere l’errore di ammettere nell’arco costituzionale gli ex fascisti di
Almirante. Abbiamo preferito lasciarci alle spalle le vergogne della dittatura.
E se oggi torniamo a parlare ossessivamente di fascismo è perché temiamo di
vederlo rinascere in altre forme.
Anche per questo è inammissibile che un
ministro della Repubblica possa dire orgogliosamente che il 25 aprile è una
baruffa senza senso a cui preferire una visita a Corleone. Ma è lì, figlio
bello, che nascono la democrazia e la Costituzione. E nasce anche la
possibilità che tu dica queste minchiate».
Lei ha ambientato tutti i suoi romanzi storici nella Sicilia tra Seicento e
Ottocento, con scarse incursioni nel Novecento. Perché solo in Sicilia?
«Perché non riesco a esercitare la mia
immaginazione fuori di lì. A conti fatti ho vissuto più a Roma che in Sicilia,
ma forse la ragione è proprio questa: l’isola pian piano è diventata memoria e
mito, perdendo i contorni di realtà. E quindi uno scrittore si sente
autorizzato a continuarne il disegno anche fuori dai margini slabbrati. Senza
contare la distanza dell’età. Io sono un superstite. Quasi tutti i miei amici
si sono resi defunti. Ora non mi chieda come si vive da superstite, perché si
vive male».
Che dice Montalbano di questa sua passione per la storia?
«È un ricattatore. Ogni volta che mi metto
a lavorare su un romanzo storico e sono impelagato in una certa questione,
arriva lui a provocare: se ti fossi dedicato a me, a quest’ora non saresti in
questi lacci. Oltretutto economicamente ti rendo tre volte tanto…».
Un ricattatore, sì.
«Di più, è un vero farabutto».
Ma lei non cede al ricatto.
«No. C’è un bel titolo che dice “la storia
siamo noi”. Non lo sappiamo, ma la storia ci attraversa costantemente e noi
attraversiamo senza saperlo la storia. Di questo cammino di attraversamenti mi
sembra doveroso fare un resoconto per coloro che verranno».
La
Repubblica, 26 aprile 2019
Nessun commento:
Posta un commento