Placido Rizzotto partigiano in una tela di G. Porcasi |
«Un derby tra fascisti e comunisti»: così Matteo Salvini, ministro
plenipotenziario del governo in carica, ha definito la Resistenza e ha
annunciato che il 25 aprile diserterà le commemorazioni ufficiali e andrà a
Corleone, per la sua esibizione antimafia. Qualcuno lo informerà che a Corleone
c’è stato un certo Placido Rizzotto, che ha fatto la Resistenza in Carnia ed è
stata la scuola in cui è maturata la sua coscienza politica che lo ha portato a
organizzare le lotte contadine e a combattere la mafia, pagandone il prezzo.
Probabilmente sarà la prima volta che il superministro leghista, che non
pare uomo di molte letture, ne sentirà parlare. Ma non è un’eccezione, ormai
pure la scuola ha voltato le spalle alla storia, eliminandola dalle materie per
gli esami di maturità, ma di fascismo e Resistenza nelle scuole della
Repubblica si è parlato sempre poco o niente. E sulla base di un’ignoranza
strutturale e congenita, c’è stato un presidente del Consiglio che, sentendo
parlare dei fratelli Cervi, anche per lui la prima volta che gli capitava,
mostrava il desiderio di incontrare Alcide, il loro papà, che ci aveva lasciati
nel lontano 1970. Ora tocca a un altro lumbard che, da tifoso dei
social, traduce una storia che non conosce, e non gli interessa conoscere, in
una partita di calcio stracittadina.
Viviamo in un periodo storico che, dopo la guerra fredda anticomunista,
stravinta dal capitalismo associato, sembrava doversi aprire alla fratellanza
universale, alla globalizzazione dei diritti e del benessere. Invece la
dittatura del mercato ha portato all’archiviazione del welfare istituzionale,
all’acuirsi delle disuguaglianze tra un club di straricchi e una stragrande
maggioranza di vecchi e nuovi poveri, alle migrazioni di popoli che fuggono
dalle guerre, dalla miseria e dalle catastrofi climatiche, frutti del sistema,
e la reazione è la chiusura dei porti e l’innalzamento dei muri. Ora la nuova
geopolitica è il sovranismo, con il «prima gli italiani!», declinazione
nostrana di un egoismo generalizzato, che vede in qualche migliaio di persone a
rischio naufragio un assalto ai sacri confini della patria.
C’è chi dice che il fascismo è alle porte, ma voci affidabili avvertono che
il fascismo e il nazismo erano un’altra cosa, delle dittature, cioè la
negazione della democrazia.
Nel nostro Paese la democrazia formale è salva, di tanto in tanto si
va a votare, ma ci sono gruppi che si autodefiniscono fascisti e a Torre Maura,
periferia romana, i camerati di CasaPound qualche settimana fa gridavano ai
Rom: «Dovete morire» e calpestavano il pane destinato ai bambini. È bastato il
ragazzo Simone, che sfidava gli squadristi, a presidiare un senso di umanità
così spudoratamente violato? La Costituzione vieta la riorganizzazione, «sotto
qualsiasi forma», del disciolto partito fascista, ma ormai la Costituzione è
più un testo da stravolgere che da attuare.
Certo, al Quirinale non siede un rampollo della dinastia savoiarda, con un
imbelle reuccio che spianò la strada al fascismo e firmò le leggi razziali. Ma
che altro è, se non razzismo, la xenofobia, l’odio e l’avversione per le
persone di colore, che dagli spalti degli stadi tracima nella vita quotidiana?
E come si spiega il successo di cui gode un personaggio con linguaggio e pose
da ducetto in tirocinio?
Tutto questo non ha qualcosa da spartire con il clima che generò il
consenso di massa alle resistibili ascese dei dittatori di ieri? La
differenza è che allora, sull’onda della rivoluzione sovietica, si temeva che
qualcosa di simile potesse accadere in Italia e in Germania, e le sinistre
divise facilitarono il cammino a Mussolini e Hitler, mentre oggi le sinistre,
nelle loro varianti, tra un riformismo mutato in trasformismo e una
predicazione rivoluzionaria destinata a non avere molto seguito, rischiano
l’irrilevanza o la scimmiottatura di canoni delle destre. Ma non può essere
questa la polizza di assicurazione che ci salverà da un’involuzione in corso.
La crisi della democrazia, perché di questo si tratta, al di là dei
rituali, si sposa con una cattiveria disumana che marchia come «buonismo» quel
tanto che ci resta di coscienza civile e comunitaria.
È questo il terreno su cui si misura la tenuta di una Resistenza fatta soprattutto
di conoscenza e di capacità di progettare alternative all’epidemia di
intolleranza o di indifferenza che rischia di travolgerci. Per uno come Salvini
la scelta di andare il 25 aprile a Corleone è decisamente sbagliata, perché lì
antifascismo e antimafia si incrociano nel nome di un partigiano di due
Resistenze. In ogni caso c’è da augurarsi che l’unica traccia che il suo
passaggio lascerà sarà il post del suo faccione con un cannolo in bocca.
La Repubblica Palermo, 24 aprile 2019
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