CLAUDIO REALE
Si intitola "120 anni di lotte per il lavoro" il convegno della
Cgil per ricordare a dieci anni dalla morte il sindacalista della Fiom Peppino
Miceli e riflettere sulla tradizione che nell’Ottocento portò all’Expo
nazionale
Un giorno, nel pieno della rinascita, 25 operai entrarono in mensa. Erano
appena stati assunti, e ai Cantieri navali si serviva la minestra: «Nel piatto
d’alluminio — racconta uno di loro, Giuseppe Reina, che poi fu per quasi 40
anni delegato Fiom — c’erano i vermi che galleggiavano. Ci alzammo:
"Buttiamo tutto all’aria". A fare la guardia c’erano dei mafiosi:
misero la mano alla pistola, ma non ebbero il tempo di minacciarci. Migliaia di
operai ci seguirono lanciando i piatti. Il giorno dopo la mensa era pulita». Così,
in un giorno qualsiasi, nel Dopoguerra della rinascita era sorta — o meglio era
risorta — la coscienza sindacale nel cuore operaio di Palermo, appunto i
Cantieri: oggi i protagonisti di un secolo di lotte sindacali — da Reina a
Ottavio Terranova, da Luigi Colombo ai leader più recenti come Francesco Foti e
Serafino Biondo — si ritroveranno a Villa Niscemi per ricordare i 10 anni dalla
morte dello storico dirigente Fiom Peppino Miceli, ma anche per ripercorrere il
filo di "120 anni di lotte per il lavoro", secondo la traccia del
titolo del convegno.
Sono stati anni di sconfitte brucianti e vittorie portentose.
Di ridimensionamenti e scioperi, di picchetti e rivendicazioni. In una
parola: di lotta. Di denti serrati e voglia di non piegare la schiena.
Una tradizione iniziata col primo sciopero del 1901, per la differenza di
salari fra nord e sud, e che su questo refrain ha visto Palermo salire più
volte sulle barricate: «Il salario — ricostruisce Terranova, che fu delegato
Fiom dal 1950 — era del venti per cento in meno.
Poi, negli anni Sessanta, siglammo un accordo glorioso: parità di salari,
premi di produzione analoghi a quelli del nord».
Eppure ancora oggi si lotta per le medesime rivendicazioni: sebbene i
Cantieri abbiano subito in quarant’anni una robusta cura dimagrante, dai 3.700
dipendenti diretti del 1976 ai 420 di adesso (cui si sommano mille lavoratori
dell’indotto), si festeggia adesso il ritorno alla piena occupazione del
personale residuo grazie ai nuovi accordi siglati da Fincantieri, ma si
attendono investimenti per recuperare terreno sui cantieri del nord, che
drenano ad esempio le costruzioni di navi. «Luigi Di Maio — tuona Foti — aveva
promesso investimenti. Adesso attendiamo che mantenga le promesse». Toni duri,
eppure da queste parti la classe operaia che ha perso i suoi riferimenti a
sinistra ha trovato una sponda dialogante proprio nei grillini. «Ormai — dice
Foti — ai Cantieri tutti votano Cinquestelle. Ed è giusto dialogare con loro».
Non era così un tempo. Perché nelle roccaforti operaie che difendevano
anche in modo eccessivo la propria appartenenza alla Cgil (all’Aeronautica
Sicula si arrivò a scioperare perché era nato un nucleo Uil) il riferimento era
naturalmente uno solo, il Pci.
«Eppure — osserva Luigi Colombo, che dopo essere stato segretario Fiom fu
anche deputato regionale comunista — non eravamo subalterni al partito. La
"cinghia di trasmissione" fu archiviata con Di Vittorio (lo storico
segretario della Cgil del dopoguerra, ndr) ». Quegli anni, quelli di
Di Vittorio, furono però i più entusiasmanti: «Dopo il fascismo — ricorda
Terranova, che è anche vicepresidente nazionale Anpi — fu necessario ricostruire
tutto. Il sindacato prendeva corpo giorno dopo giorno, accoglieva nel suo
grembo le forze operaie».
Combattendo una battaglia che passava anche dal contrasto
all’analfabetismo. «All’epoca — spiega Reina — la resistenza culturale
diventava un punto centrale della nostra azione. Ai Cantieri nacquero le
commissioni per la cultura: corsi di teatro, un giornalino, anche una grande
biblioteca di fabbrica». Che c’è tuttora, sebbene tutto intorno sia cambiato lo
scenario: perché dagli anni Settanta, superato con sorprendente equilibrio il
rischio di radicalizzazione degli Anni di Piombo («Con Lotta continua si
ragionava, menammo le mani una sola volta ma semplicemente contro i crumiri che
violavano uno sciopero», prosegue Reina), iniziò un declino che travolse l’industria
tutta, e con essa il concetto stesso di lotta operaia.
Perché in quegli anni — o in quelli precedenti — l’industria a Palermo
c’era. C’erano i Cantieri, più popolosi di ora, ma c’era l’Aeronautica sicula,
c’erano le Officine Ducrot, c’erano l’Oms e la Fonderia Basile, eredi della
tradizione che nel XIX secolo aveva portato persino a un’Expo nazionale. «In
Sicilia — ragiona Colombo — si ritenne di agevolare l’industria incentivando
gli investimenti. Si credette all’illusione di uno sviluppo autarchico che
diede vita ai poli petrolchimici. Poi, però, l’Europa impose plafond
produttivi, e il sud drogato dagli interventi straordinari finì per arretrare».
Una crisi che si rifletté sui cantieri: «Nel 1976 — osserva Agostino
Levantino, delegato fra il 2000 e il 2006 — arrivarono le ultime assunzioni.
Poi il cantiere iniziò a ridursi». Arrivarono le tragedie dei morti per
amianto, gli incentivi all’esodo dopo le malattie, i ridimensionamenti. «Fra il
1992 e il 1994 — continua Levantino — andarono via in 700 e non furono
sostituiti». Il declino, cui però per chi ci ha creduto non corrisponde una
crisi del sindacato stesso: «Non vive più una fase della cultura
dell’appartenenza, è vero — ammette Foti — ma viene ancora tenuto in
considerazione quando dà risposte. Quando non ha paura, se necessario, del
conflitto». Un conflitto che affonda le radici in quel piatto di minestra.
Nell’idea che i lavoratori possono e devono alzare la testa contro lo
sfruttamento, contro gli sfruttatori e non contro il povero più vicino. Un’idea
che ha 120 anni di storia. Ma che non sarà mai obsoleta.
La Repubblica Palermo, 12 aprile 2019
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