Concita De Gregorio
Il rap di Simone si potrebbe mettere in musica. Così com’è, tagliando solo
un po’.
«Nun me sta bene che no, so’ minoranza che sì». C’è già anche il
ritornello. Le strofe, se avete visto il video, le conoscete. «Lei sta a fa’
leva sulla rabbia della gente di Torre Maura, er quartiere mio, pe’ i suoi
interessi». La canzone comincia così. Pensavo, vedendo questo ragazzino di 15
anni immobile e tranquillo davanti a un cinquantenne che gli si avvicina a
dieci centimetri dal viso, che così fa un rapper. Sta. Dice. Non arretra,
continua. E difatti Simone, che mentre parla muove la mano in una specie di tre
— il gesto che segna l’hip hop — e toglie il cappuccio della sua felpa nera —
la divisa dell’hip hop — solo quando il crescendo del discorso vuole, a ritmo
di musica, questo sembra — in quelle immagini: un ragazzo che canta un
discorso. Con le sue parole, con la sua lingua.
È che noi non abbiamo un Tupac, o un 50 Cent, o un Kendrick Lamar che di
certo Simone come ogni quindicenne ascolta in cuffia. Non abbiamo, in Italia,
una generazione di neri dei sobborghi delle metropoli che dicono in poesia la
rabbia dei margini. Né un Eminem bianco, abbiamo. Forse sono in arrivo, forse
sono le seconde generazioni — Ghali e Mahmood e gli altri — e sarà lì che si
formeranno le coscienze dei nostri figli bambini: in quella musica. Perché di
quella vivono, in quella crescono.
All’uso che Simone fa delle parole, pensavo. Che sono semplici, gergali,
definitive.
«Nessuno deve essere lasciato indietro. Né gli italiani né i rom né gli
africani». «Stare sempre contro le minoranze nun me sta bene». Guarda che io ho
50 anni, gli dice quello di Casa Pound.
«Pure mì’ zio c’ha cinquant’anni». Ma la tua fazione politica…, gli dice un
altro. «Io so’ de Torre Maura, che non è nessuna fazione politica». Fine.
Nessuna fazione.
È la sintesi senza la malizia del marketing. Non c’è uno stuolo di
sedicenti spin doctor che trasformano in slogan da 180 caratteri quel
che hai da dire ma che da solo non sapresti comunicare: «Buongiorno amici,
siete anche oggi d’accordo con me?». No. A quindici anni sei nato dentro quel
modo di parlare, hai fretta congenita, vai diritto al punto, è il tuo lessico.
Ed è vero, quello che dici: ti corrisponde e si sente. Stai rappando, stai
semplicemente parlando.
I ragazzini che vanno diritti al punto. Solo nelle ultime settimane Greta
Thunberg, 16 anni, sul clima. Rami e Samir, i tredicenni del bus, su cosa
sia essere italiani. E ora Simone, romano, che «a me i rom nun me cambiano la
vita, che se er Comune de Roma nun dà i servizi a Torre Maura è colpa dei
rom?».
La terza via, fra élite e popolo, eccola.
Le parole degli intellettuali non arrivano, e quando arrivano non servono:
sono dense, sono troppe, rimbalzano sul pregiudizio di chi già pensa di sapere
cosa diranno. Eh già, eh certo. Gli intellettuali. Le parole del popolo sono
cariche di rabbia quasi sempre giusta, ma di approssimazione inevitabile. La
competenza, la fatica di sapere sono merce di lusso caduta in disuso e
additata, certo non per caso, come un disdoro. I sapientoni, gli
euroburocrati, i competenti e i colti sono i nuovi nemici del popolo. Una
minaccia alla volontà sorgiva della gente, è una vecchia storia e bisognerebbe
stare attenti.
Poi ci sono i ragazzini. Che spesso cantano, a volte disegnano. Se no
parlano e basta.
Dicono, per esempio: «Se mi vogliono dare la cittadinanza va bene ma io
sono già italiano», questo è Samir, genitori marocchini. «Non voglio le vostre
speranze, voglio che abbiate le mie stesse paure», questa è Greta, ai leader
mondiali riuniti, sul fatto che quegli adulti «non siano abbastanza maturi per
dire come stanno le cose». Frase da tatuarsi, un tempo si sarebbe detto da incidere
sul marmo ma ora le statue siamo noi, i nostri corpi. Chi parla ai
ragazzi, oggi — i veri intellettuali — sono quelli che fanno fumetti. Makkox,
Zerocalcare, Gipi, Magnasciutti e tutti gli altri. Sono quelli che cantano
nelle loro cuffie, i cui nomi probabilmente non vi dicono niente. Abbassa la
musica, quando studi. Come fai a fare i compiti con la musica? Il fatto è che
loro studiano la musica. E non era così diverso, qualche decennio fa, per noi.
È solo cambiata la lingua della rabbia.
Sarà una coincidenza, può darsi, ma Rami e Samir, Greta e Simone abitano
una periferia: esistenziale o fisica, geografica, sociale. Ci stanno, è la
norma per loro: non si sentono vittime, semplicemente sono nati lì. Stare fuori
è uguale a stare dentro, non c’è merito né colpa se nasci dove nasci. Quello è
il mondo. Avere genitori egiziani o marocchini, un padre disoccupato. È
normale, perché?, che c’è? «Io non sono d’accordo». «Io sono già italiano».
Greta Thunberg ha la sindrome di Asperger, soffre di mutismo selettivo. «Parlo
solo quando penso che sia davvero necessario», ha spiegato a chi le chiedeva.
Solo se davvero necessario. Non sarebbe meraviglioso se lo facessimo tutti?
La Repubblica, 6 aprile 2019
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