Nicola Zingaretti, neo segretario del Pd |
Ezio Mauro
Primum
vivere », decretò Bettino Craxi, appena conquistata la segreteria del Psi,
nel 1976. Può darsi che Nicola Zingaretti si trovi a pensare la stessa cosa in
questi giorni, dopo i voti regionali in Abruzzo, in Sardegna e in Basilicata.
Hanno dimostrato che la sinistra perde, dovunque, come accade da quando la
destra si è impadronita dello spirito dei tempi. Ma
hanno rivelato anche che il Pd non è morto dopo la latitanza dell’ultimo anno,
e con l’indebolimento progressivo del Movimento Cinque Stelle, che continua a
perdere consensi, può addirittura tornare in partita. Dunque, « primum
vivere », sicuramente.
Ma
subito dopo nasce la vera domanda: per fare che cosa?
Si
può naturalmente organizzare una teoria della sopravvivenza, strutturandola
intorno a una linea di resistenza. Aspettando che l’ondata sovranista passi, e
che la politica tradizionale riprenda la sua forma. Un nobile profilo di
minoranza, che occupi la metà sconfitta del campo, le dia voce e la indirizzi
in una funzione di opposizione, di testimonianza, di presidio di alcuni
principi fondamentali del pensiero liberal-democratico e costituzionale. Ma
quella che potrebbe sembrare una rendita minima di posizione, scrutando il
cielo in attesa che cambi la meteorologia del Paese, sarebbe in realtà
un’occasione perduta. Vediamo perché.
Dall’avvento
di Trump alla Casa Bianca alla scelta della Brexit in Gran Bretagna, sono
cambiati i connotati stessi dello spazio del pensiero occidentale, dentro il
quale erano cresciute le culture politiche moderne della destra e della
sinistra e si erano modellate costituzioni e istituzioni.
Ciò
che è successo ha deformato quello spazio, perché ha confinato la sinistra e
soprattutto ha stravolto la destra, rendendola nello stesso tempo più forte e
irriconoscibile a se stessa. Il trumpismo è prassi, azione e interpretazione
della forza, distinzione non più tra alto e basso ma tra inclusi ed esclusi, ed
è un rovesciamento estemporaneo non soltanto della politica estera americana,
ma prima ancora delle ragioni costitutive dell’Occidente che determinano quella
politica dal dopoguerra: della sua natura. Una serie di patti bilaterali tra
Stati ridotti — in proporzione — a potenze individuali soppianta l’idea di un
legame storico che per decenni si è tradotto in valori e in alleanze, partner
inconfessabili diventano interlocutori privilegiati, l’Europa improvvisamente
precipita a costruzione pericolosa e velleitaria, la storia si azzera e
ricomincia, senza lezioni, senza eredità, senza vincoli e princìpi. Siamo nel
punto " x" della vicenda umana e politica, il punto in cui si rompe
la faglia col vecchio mondo, e da cui scaturiscono e prendono il largo le nuove
teorie e le nuove leadership. Anzi, le leadership si spiegano e si giustificano
da sole, non hanno bisogno di teoria, nel mondo " x" che non ha
passato perché inventa se stesso ogni giorno.
C’è
un’eco che arriva da noi. Perché la Brexit ha fatto il resto, rompendo l’idea
di Europa e bloccando la nozione della politica come costruzione, fermando il
concetto di progresso come governo dei fenomeni complessi, cancellando
l’illusione che soltanto facendosi carico della responsabilità della storia si
potesse interpretare il nuovo. Al contrario: dovunque nei nostri Paesi la
politica insegue la paura, invece di emanciparla. Gli egoismi e le gelosie sono
diventati politica corrente, senza nemmeno un traduttore, o un convertitore.
Anzi, hanno generato direttamente una contropolitica che trasferisce la rabbia,
il rancore e il risentimento dentro il sistema invece di risolverli, e li tiene
allo stato incandescente piuttosto di elaborarli, superandoli. Come ovvia
conseguenza è cambiato il nostro linguaggio, la cultura, l’antropologia, perché
nel politicamente scorretto ogni barbarie è consentita, ogni tradizione
solidale è saltata e abbiamo travestito la ferocia come la più moderna
espressione della libertà.
Il
frutto che raccogliamo è una politica senza nome. I cui elementi sono
naturalmente di destra, ma una destra così esagerata e fuori misura (perché
appunto fuori dalla storia) che sta riconfigurando il sistema, includendo ed
escludendo secondo le sue convenienze, i suoi obiettivi e soprattutto la sua
anomalia vivente. Il perno è il sovranismo lepenista, in Italia rappresentato
dalla nuova Lega. La seconda costola è il modernismo post-fascista di Fratelli
d’Italia, che porta a Salvini ciò che resta della vecchia area berlusconiana,
scartando Arcore, il suo mondo e qualche residua debole testimonianza
moderata. Il terzo elemento è la mutazione ormai da tempo in corso nei Cinque
Stelle che stanno traghettando una base protestataria in parte delusa dalla
sinistra nel pozzo neo-reazionario del salvinismo, senza nemmeno più
distinguersi a occhio nudo. Nati cercando la grande menzogna di un luogo "
x", né di destra né di sinistra ( come fosse possibile non scegliere nel
mondo di oggi) sono già diventati parte costituente anche se gregaria di questa
nuova destra italiana, che cerca addirittura un nuovo nome, una definizione
appropriata alla sua eccezione.
Di
fronte a tutto questo, puntare a sopravvivere è un’abdicazione, anzi una colpa.
La sfida per una democrazia illiberale è talmente potente, che serve prima di
tutto una forte ambizione per combatterla. Tocca alla sinistra, per necessità
più che per merito, difendere quei valori liberaldemocratici che non sono certo
soltanto suoi, ma che adesso sono in pericolo. Le spetta oggi un compito
generale, da forza di sistema, costituzionale, che salvaguardi l’idea di
Europa, il concetto di Occidente, la prospettiva di un’altra Italia. Può farlo
uscendo dagli slogan che stanno mangiando la politica, dai tweet che la stanno
cortocircuitando, dalle foto su instagram che la stanno banalizzando.
Ritrovando la vita, senza paura di guardarla in faccia nelle paure dei più
deboli, negli egoismi dei garantiti, nelle speranze di chi vuole crescere.
Recuperando una radicalità riformista, capace di parlare di diritti, di doveri,
soprattutto di lavoro e di dignità. Finora ha chiesto voti: deve proporre
rappresentanza. C’è un Paese diverso che aspetta.
La Repubblica,
27 marzo 2019
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